24 febbraio 2012

Georges Simenon, Il Treno, Adelphi, 2007

di Antonella De Maio

Di questo romanzo mi ha colpito la figura di Marcel, quello che si potrebbe definire un buon padre di famiglia, di salute cagionevole, un uomo mediocre che sa di essere in credito di emozioni con la vita. Quando lascia in fretta la sua casa tranquilla sotto la minaccia dell’avanzata dei tedeschi, sa che quell’evento straordinario è un appuntamento con il destino. Incontra Anna, donna silenziosa e passiva, passionale e misteriosa che non esplicita mai le sue emozioni e ogni volta che tenta di farlo, Marcel la zittisce. Di grande sensualità il passaggio in cui Anna si toglie le mutandine e si offre con naturalezza a Marcel nella promiscuità del vagone. Di tutta quella passione e quell’audacia Marcel sente l’esigenza di volere darne conto solo al suo figlio maschio, quasi a volergli lasciare un’eredità virile che il ragazzo mai avrebbe sospettato nel padre. Ma è proprio il rifiuto di aiutare Anna che chiude quella storia così intensa nella parentesi di un uomo mediocre, appunto.
Quanto al film, non condivido il finale melodrammatico e inventato, ma nel complesso l’ho trovato gradevole e con la scelta dei due attori protagonisti molto adeguata ai personaggi. Come sempre, per non farsi venire l’ulcera, bisogna considerarla come un’opera a sé stante, senza mai dimenticare il “liberamente tratto da…”

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di Amalia Mancini

Il romanzo ti prende subito. Ti ritrovi insieme al protagonista in questa fuga contro il pericolo che incombe, la morte che ti insegue.
Comprendi come tutte le certezze possano crollare e tutto intorno a te sia provvisorio. Sei di fronte all’imprevedibile e non hai più il controllo della tua esistenza. Sono solo uomini e donne che si cercano nella solitudine della precarietà.
Anche il tempo non esiste più, come i legami familiari. Esiste l’ora, l’adesso, il sentire, il fremere.
E l’amore? E’ per sempre, perché il sempre è ora, adesso. La quasi certezza di una prossima fine traduce ogni attimo che si vive nel più importante e significativo, proprio perché potrebbe essere l’ultimo.
Di questo libro trovo sorprendente l’incedere cadenzato e lento della scrittura, simile ai treni di una volta.

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di Elisa Cataldi

1940: i Tedeschi stanno per invadere la Francia. La popolazione fugge come può. Marcel, con la moglie incinta e la bambina, riescono a prendere un treno, ma mentre queste vengono sistemate su un vagone viaggiatori, lui si deve accontentare di un affollato e sporco carro bestiame. Qui arriva una giovane donna schiva e misteriosa, con la quale ben presto nasce un rapporto prima di amicizia e di confidenza, poi di profonda intesa anche sessuale.
Lui vive tutto ciò come un dono del destino, un miracolo inatteso ma profondamente sperato, capace di movimentare la sua troppo banale quotidianità. Lei si innamora profondamente e dà tutta se stessa in questo rapporto che la fa sentire viva e pulsante, lei che si porta la morte nel cuore!
Marcel non soffre più di tanto né per aver perduto moglie e figlia (il loro vagone non è più attaccato al treno), né per la guerra, vissuta da lui come un’opportunità per fingersi altro da sé.
La storia avrà un epilogo drammatico.
Simenon ci racconta la guerra, ma più che questa, che fa solo da sfondo, ci descrive quella sua umanità fatta di gente piccolo- borghese, mediocre, senza qualità, alle prese col destino, il libero arbitrio, il dolore.

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di Isa Bergamini

L’io narrante è Marcel. Il protagonista? In realtà la protagonista è Anna Kupfer, una giovane donna nella guerra, che però non se ne lascia travolgere. Nella storia Anna vive tutta la sua vita in modo totale, senza compromessi, ma ad occhi aperti e con tutta la sensibilità ed intelligenza che il suo corpo di donna sa farle vivere, dall’amore alla lotta partigiana. Nel treno dei profughi, la capacità di adattarsi, di piantare radici, di costruire una nuova storia cresce e da una frattura della propria vita ci si adatta sommessamente ad una nuova dimensione. Certo, questa è una grande, miracolosa capacità che mette in salvo nei momenti di emergenza, senza bisogno di psichiatri.

La luce nei libri di Simenon per lo più non è mai luminosa, ma in questo libro, quando il treno arriva nella Vandea, Marcel, che viene dalle Ardenne, non può non notare “…avidamente il sole… ed assaporare ogni sfumatura di luce…”e nel porto della Rochelle dire “… Presi immediatamente possesso del paesaggio, che mi entrò nella pelle”. Così il momento straordinario della sua vita, che sta raccontando, è accompagnato anche dal paesaggio e dalla luce. Il ritorno a casa di Marcel, dove ogni cosa è rimasta come prima della partenza, gli oggetti, nel loro grigiore quasi specchio degli affetti, e soprattutto il ricomporsi del quadro familiare, potrebbero far pensare alla coppia di “Due” di Némirovsky, ma poi il proposito di lasciare la testimonianza di una passione esclude il riferimento, perché dà un filo di speranza al rispetto che ognuno deve avere per la propria vita.

Leggendo queste pagine di Simenon resta sospesa anche una domanda: se oggi ci trovassimo in una situazione simile a quella di Marcel e della sua famiglia o comunque in uno stato di guerra, qui oggi nella nostra casa, nella nostra città, nel nostro Paese, resteremmo fermi ad aspettare l’inevitabile o fuggiremmo e che cosa porteremmo con noi? Sceglieremmo oggetti indispensabili, per vivere e comunicare o ricordi, storia personale o cibo per la sopravvivenza ed acqua? Cellulare, caricabatteria e computer innanzi tutto? Avremmo la lucidità di pensare anche per l’altro che è con noi?

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di Vanda Morano

Marcel è un uomo qualunque che apprezza la routine indisturbata del quotidiano (routine preziosa perché conquistata a fatica dopo un’infanzia infelice e un’adolescenza infestata dalla malattia), ma nasconde un segreto: in un tempo lontano la sua vita ha subito una svolta importante. Scrive di nascosto i suoi ricordi spinto dalla nostalgia per quello che è stato e non è più, per lasciare ai suoi figli un’altra immagine di sé, per indicar loro anche la via per una possibile redenzione. Nel 1940 l’invasione tedesca nelle Ardenne costringe Marcel con la moglie incinta, una figlia e i bagagli a fuggire con altri profughi. Da quel momento gli eventi decidono per lui: si trova su di un carro bestiame separato dalla moglie incinta e dalla figlia. Libero dal peso della famiglia, incontra una donna ‘in nero’, docile e appassionata. In un clima di precarietà generale, l’avvenire non lo preoccupa, smonta le sue certezze e le sue sicurezze “non avevamo più responsabilità, iniziative da prendere. Niente dipendeva da noi, neppure il nostro destino”. La passione tra lui ed Anna fluisce spontanea e senza pudore e si rafforza anche nelle afasie e nei silenzi. E’ un ritorno alle sensazioni forti dell’infanzia. E’ una storia senza passato e senza avvenire. Alla fine dell’emergenza, Marcel ritrova la moglie che nel frattempo ha partorito e riprende la vita dal punto in cui l’aveva lasciata, in una piatta quotidianità che sfocia in una letargia dei sentimenti e infine anche nella vigliaccheria.

Personaggio grandioso nella sua ‘piccolezza’. Simenon indaga sulle oscurità dell’animo umano usando le parole con misura, evitando il rischio del superfluo: le emozioni forti, le passioni, le crudeltà, le banalità, le fragilità si stemperano in uno stile asciutto ed essenziale.