Una, dieci, cento culture!!!???

Nota a margine della visita al Conservatorio

7 dicembre 2013, alle ore 20.37

di Michele Cecere

Ieri pomeriggio, 6 dicembre, ero al Conservatorio di Bari, da una finestra del primo piano guardavo l’ingresso dell’auditorium, chiuso da tanti anni. Ho pensato a quel giorno di aprile ’88 quando lì dentro suonava John McLaughlin ed io ero lì e mai avrei immaginato che quel posto sarebbe stato chiuso per tanti anni…

Mi sono poi avviato verso la sala Murat dove sapevo dell’inaugurazione di una mostra molto particolare, sempre a carattere musicale, curata da Franco Mussida, lo storico musicista della PFM, tanto per capire, l’unico gruppo rock capace di inserirsi ai primi posti delle classifiche di vendita dei dischi in Gran Bretagna e USA nella metà degli anni settanta.L’inaugurazione era stata fissata alle 17, il comunicato del comune la presentava così:

“Franco Mussida presenta questa nuova mostraesperienziale sul tema dei misteri che governano il mondo vibrante. Misteriche congiungono l’elemento sonoro musicale al nostro complesso sistema di emozioni e sentimenti. Dopo un lavoro di oltre trent’anni di ricerca, svolto anche in luoghi di particolare disagio sociale come carceri e comunità, Franco Mussida propone alla città di Bari, attraverso questo grande evento, un viaggio tra i poteri dell’intervallo musicale affrontando in modo artistico-scientifico uno dei problemi più scottanti e misteriosi che uniscono le figure degli ascoltatori e dei musicisti; il cambiare di stato emotivo attraverso il semplice ascolto di due comunissimi suoni musicali. La mostra “Cambiare di stato” è caratterizzata da 4 distinte opere che interagiscono tra di loro. La prima, la più importante, è costituita da “17Stazioni di ascolto con vista sulla Musica” disposte tutto attorno allo spazio espositivo che consentiranno al pubblico, attraverso un sistema tecnologicamente complesso, di vivere preziose suggestioni e visioni delle sculture. Su ciascuna di queste è incisa una simbologia che rimanda al potere evocativo di ogni singolo “intervallo musicale…

Ecco, alle 18 ho parcheggiato la mia bici ad un palo dinanzi alla sala espositiva, sono entrato e… c’era il deserto! La sala Murat può contenere diverse centinaia di persone, ma ce n’erano solo otto o nove… Al centro della sala tre poltroncine, su quella centrale un signore dalla folta chioma bianca e dallo strano cappello digitava qualcosa su un tablet. Ho cominciato a guardare e ascoltare le installazioni, intorno a me solo pochi, pochissimi curiosi. Poi ho visto alzarsi quel signore e finalmente ho riconosciuto in lui Franco Mussida, è andato incontro ad una visitatrice e ha cominciato a spiegarle il senso della mostra, accompagnandola lungo il percorso. Non c’era il sindaco, né l’assessore, erano già andati via… ma non c’era nemmeno la città!

La mia sorpresa nel vedere un grande artista nel deserto di una grande sala di una grande città che, a parole, voleva candidarsi fino a qualche mese fa, a capitale europea della cultura, questa sorpresa, era un misto di ammirazione per l’artista e di vergogna di appartenere ad una comunità in cui si è smarrito il senso della cultura. Quando sono uscito da quella sala ho visto la mia “gente” fluttuare tra i gazebo di una fiera di Natale, ho preso la bici e, attraversando Corso Vittorio Emanuele, un bagliore del passato mi ha travolto, il pensiero della morte di Mandela e di una fiaccolata contro l’Apartheid proprio su quel corso, era un giorno della prima settimana di settembre dell”83. Non meno di tremila persone in un pomeriggio caldo che si faceva sera, invece di passeggiare col gelato sul lungomare marciavano per dire NO ad un problema che affliggeva un paese così lontano. Oggi, nell’anno 2013, una guerra dall’altra parte del pianeta mobilita al massimo cento persone, che poi sono in gran parte i reduci di quelle manifestazioni di un tempo…

Ho avuto solo voglia di andarmene dal centro della mia città, un centro che un tempo pulsava di librerie e posti culturali, al posto di quei negozi bellissimi di una volta ci sono i “compro oro” e le sale giochi con tutta la disperazione dei loro frequentatori. Mentre pedalavo cercando di evitare le auto traboccanti e stressanti, pensavo che trent’anni di deriva culturale hanno distrutto questa città. Ho pensato che serve a poco avere una bella mostra e magari pure un bellissimo auditorium e poi teatri e cinema, se poi la gente ormai è persa dietro l’effimero della distrazione globale. L’unica via, se non è già troppo tardi come temo, è ripartire dalla base, da una scuola che sia capace di educare alla cultura.

La tristezza in qualche modo mi coglie ogni volta che guardo un angolo del centro della mia città e mi accorgo che lì dove c’era qualcosa di storico oggi magari si vede un modernissimo palazzo in vetro. Qualche giorno fa, a casa dei miei, ho trovato un libro prezioso, curato dall’ADIRT, si chiama “Bari 1950-1980 – La guerra dei trent’anni- Le distruzioni nel borgo murattiano”. Ecco, oggi mi viene di pensare che se in quel tempo abbiamo distrutto fisicamente la memoria della città, delle città (non solo di Bari), perché quello fu il tempo della folle modernità edilizia, gli anni dal 1980 in poi sono stati quelli della guerra alla cultura. A parte la tristezza, il senso di quello che provo è appunto l’estraneità da certe effimere mode, sono sempre più lontano, ad esempio, dalle notti bianche della cultura: di questo passo, tra un po’, sarà buio davvero e non solo di notte!