19 giugno 2013

Giacomo Annibaldis, La colpa del coltello, Edizioni di pagina, 2013

di Elisa Cataldi

“La colpa del coltello” – ma che vuol dire? Stiamo cercando un colpevole? Di cosa? Di quale sofferenza? Di un’adolescenza difficile, vissuta in un istituto di preti, lontano dalla famiglia perché disagiata spesso in seguito alla morte del capofamiglia, unico capace di mantenerla. E…il colpevole chi è? E’ “il coltello”…. cioè… nessuno, è il destino, neanche un responsabile col quale prendersela!
Il libro esordisce e si conclude con le risposte a questi drammatici interrogativi.
E’ la strategia dell’incolpevolezza (9). E’ stata mozzata la coda alla lucertola: di chi è la colpa? “Non so’ stato io, non so’ stato io. E’ stato il cane della vicciaria”.
E la stessa tematica conclude la storia: Sandro ed Oscar per motivi diversi (il primo in riformatorio perché trovato a rubare, il secondo allontanato forse perché scoperto in atti osceni) non torneranno più in istituto. Il Maestro, sinceramente addolorato, si interroga e interroga i ragazzi sulle loro responsabilità in merito e Iusco, con una logica stringente ed una visione cinica e disincantata, (118) conclude che tutto quello che è successo era inevitabile, era fatale perché…”questa è la regola della vita: guai a chi càpita”!!!! Altro che solidarietà, altro che corresponsabilità paventate dal Maestro!!
Tenero e poetico anche se spesso viene usato uno stile troppo dotto, troppo aulico (97) per un contesto tipicamente semplice ed immediato!
I ragazzi interagiscono compatibilmente con il loro carattere e le rispettive peculiarità sempre ben delineate. Si va da Sandro sempre schivo e risentito con la vita, ma che “vive appollaiato sulle radici delle cose” (27), a Claudio Iusco dalla razionalità stringente e la continua voglia di fuggire (89)… ma dove, se la famiglia stessa dove lui vorrebbe tornare, lo rifiuta? Poi c’è Oscar, il “mangiamuerve”, un po’ antipatico, opportunista e compiacente con la sua “disperata ricerca di protezione e di asservimento rivolta ai più forti e ai più grandi” (99).
L’Io narrante, Mino, alle prese con una madre disperata (65) che la solitudine e la povertà stanno portando alla follia, tanto che Mino…”tornavo volentieri in collegio, avevo bisogno dei miei compagni”. Meno male che c’è il nonno che viene a trovarlo, anziano, malandato, di poche parole ma….. (68) e la zia Niche…
O Mimmo Milella, un ragazzone sempre seduto all’ultimo banco, più abile nei lavori manali ché nello studio. Grande compagno, fino al giorno in cui è costretto a ritirarsi dall’Istituto e andare a lavorare come manovale perché…la mamma si è impiccata e non c’è più nessuno che mantenga i suoi fratellini. (78)
Ora gli Istituti non ci sono più, ci sono le case famiglia ed altri presidii sostitutivi: è meglio? Non saprei! Credo che la sofferenza resti comunque tale e che la “fortuna” di questi ragazzi dipenda più che altro dall’incontro con singole figure “illuminate” non tanto come quelle di don Marco e don Ambrogio, quanto come quella di questo Maestro capace di trarre un insegnamento utile, anche dalle cose più banali e casuali (35) come uno “scemo chi legge” scritto sulla lavagna: non solo nozioni, ma veri strumenti per pensare e quindi affrontare la vita.