Questo, in sintesi, il contenuto del nostro intervento presentato dalla Presidente Lucia Aprile.
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“La nostra presenza qui, oggi, a questo convegno che ha come obiettivo creare un ponte tra il mondo della ricerca, il mondo delle istituzioni e la società, ha un senso per tutto ciò che l’Adirt è stata o che ha cercato di essere.
L’Adirt nacque nel 1982 come un movimento di protesta contro la realizzazione di un parcheggio in via Omodeo, ma divenne subito dopo un movimento di conoscenza del nostro patrimonio culturale, archeologico e architettonico. Tutto questo divenne possibile grazie a Nino Lavermicocca che, con i suoi studi classici presso la nostra università e con la sua attività di ricerca che lo avevano portato a Washington, a Salonicco, a Parigi, aveva approfondito l’Arte bizantina nell’Italia meridionale, l’Archeologia medievale. Nino però, non era solo uno studioso, era anche nato a Bari vecchia, per il cui riscatto si era impegnato sin di tempi dell’università, come per la internazionalizzazione della figura di San Nicola, che nel suo culto univa milioni di fedeli da oriente ad occidente. Con Nino vedemmo lo scempio di Bari vecchia, le demolizioni del murattiano, la formazione di interi quartieri ghetto privi di servizi sociali, la mancanza del verde pubblico .
Non fu però solo conoscenza ma anche e soprattutto difesa, tutela, valorizzazione.
L’Associazione Adirt si aprì a tutti: enti culturali, privati, esperti, cultori della materia. Coinvolse l’Amministrazione comunale e regionale, le Istituzioni ed i giornali. Il suoMetodo: le tavole rotonde, i seminari, le escursioni, i viaggi di studio.
Numerose le Pubblicazioni, in particolare:
La guerra dei trent’anni, sulla distruzione del Borgo Murattiano.
Bari sotto chiave, sulle chiese chiuse di Bari vecchia.
Le 7 pagine di Città: l’insediamento protostorico, l’età greco-romana, fra tardo antico e medioevo, la Polis bizantina, la Città medievale.
E poi:
Il censimento degli insediamenti rupestri nel territorio di Bari.
Il progetto per il parco archeologico di via Omodeo.
Il restauro e lachiusura al traffico dellamuraglia.
Il fortino da restituirealla città.
Le ville antiche da salvare.
L’attenzione ai Quartieri periferici ed emarginati, per la creazione di nuovi spazi e servizi sociali.
L’Archeologia industriale e la sua destinazione d’uso.
La formazione di Cooperative di giovani quali Monterosso, la Cast.
Mi preme inoltre sottolineare che grandissimo fu il merito dell’Adirt nel coinvolgimento delle Scuole sul territorio; in collaborazione con il Cidi (Centro Iniziativa Democratica Insegnanti), nacque “Città come aula”,una serie di lezioni e visite guidate per docenti e studenti. Furono realizzati “Il campo archeologico a Cannedella battaglia”, un Campo Scuola di 18 giorni per 20 giovani dai 15 ai 18 anni; “Mostre didattiche, su Bari fra tardo antico e alto medioevo”, precedute da Laboratori didattici.
Noi riteniamo ancora valide queste linee di azione! Chiede il Convegno: “Come rafforzare il rapporto tra università e città?”
L’Università porti i suoi studenti sul territorio per un’esperienza non solo di conoscenza o puramente estetica, ma istituzionalizzata nel percorso universitario attraverso la pratica di laboratori, escursioni di studio, progetti.
L’Adirt quest’anno ha compiuto 40 anni e ha incominciato a ricordarli ritornando sui luoghi da dove era partita, per leggerne trasformazioni e problemi, con la guida spesso di giovani ricercatori del Politecnico.
Un esempio: “la lettura della nuova via Sparano”, quel ritmo particolare tutto giocato tra interno ed esterno, tra attraversare e stare, tra commercio e arte, tra tradizione e innovazione, sottolineato dal progetto Salimei.
L’Adirt è dunque disponibile: – a offrire la propria esperienza e le buone prassi per arricchire la formazione degli studenti; – a dare loro uno spazio nella nostra Associazione per continuare insieme quel percorso di conoscenza e di cura che, soprattutto dopo tre anni di chiusura per la pandemia e di ansia per le trasformazioni nel mondo, crediamo ancora più necessario riprendere.
Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:
La nota ricorrente è stata l’emozione nel leggere la storia di ragazzi la cui giovinezza è stata negata e le cui vite sono state travolte dalla guerra. Il racconto dell’amore di Milton, Fulvia e Giorgio è la questione privata che ha tutti i segni di umanità nella disumanità della guerra.
Si è detto che la Resistenza come scelta di vita viene raccontata in questo libro, nella sua sommessa e drammatica quotidianità, vissuta come unica scelta possibile per avere diritto ad una dignità umana, nella consapevolezza di una solitudine che non urla la sua disperazione.
Più volte è stata citata la descrizione del paesaggio delle Langhe e soprattutto della nebbia che nasconde, avvolge e protegge, ma anche può ingannare.
L’amore travolgente del giovane Milton è compagno del suo andare, ma la morte incombe ad ogni passo e ad ogni suono su quelle colline.
E’ stata sottolineata l’alta qualità delle pagine di Fenoglio in cui il lirismo traspare sommesso in una scrittura piana, dolce e penetrante, risultato di un grande lavoro.
Diversi sono stati i pareri su come Fenoglio abbia voluto concludere la storia o se l’abbia lasciata volutamente indefinita.
Quando si è parlato di Resistenza è stato citato N. Bobbio (Profilo ideologico del Novecento in E. Cecchi, N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano, 1969) “…La Resistenza, non fu una rivoluzione e tanto meno la tanto attesa rivoluzione italiana; rappresentò puramente e semplicemente la fine non pacifica ma violenta del fascismo (…) La Resistenza si dimostrò essere un “tempo breve”, consumato e strozzato prima di aver potuto esprimere tutto il proprio potenziale di forza ideale e di capacità rivoluzionaria.”
Quando si è parlato del paesaggio in queste pagine di Fenoglio, è stato citato quanto ha scritto Emilio Cecchi “(…) La sua forza sta in questo: che, non rinunciando mai alla sua ostinazione intellettuale e morale, egli arriva a darci la rivelazione delle forze tempestose che sovrastano la vita. (…) … la dolcezza dei paesaggi, i contraccolpi della memoria, il respiro della natura che muovono il suo mondo esprimono una reverenza quasi religiosa per la scabra, infinita avventura umana.”
L’incontro, anche questa volta, è stato piacevolmente addolcito dalle “coccole” di Luciana.
Pedro Lemebel, “Ho paura torero”, traduzione di M.L. Cordaldo e G. Mainolfi, Marcos y Marcos, 2004 e 2021
proposto da Tonia Lamanna
di Tonia Lamanna
Un libro che commuove, diverte, sorprende, graffia e fa pensare. Una satira demistificante del potere dittatoriale di Pinochet che emerge dal “basso” dei quartieri popolari e della marginalità sociale del protagonista omossessuale e travestito. E’ la Fata dell’angolo, sartina canterina a servizio di altezzose clienti benestanti, una “mammola tutta bambagia e delicatezza” che in-cantata dal fascinoso Carlos, universitario e rivoluzionario, attraverso questo amore impossibile e poetico, libero e pudico, malinconico e struggente, sensuale e delicato, riscatta tutta se stessa da una vita di umiliazioni e violenze familiari, di frequentazioni sordide e amicizie equivoche, maturando progressivamente ed insieme consapevolezza politica e dignità personale.
Il romanzo ha tutto il sapore della vicenda autobiografica vissuta dall’autore cileno, il trasgressivo Pedro Lemebel, attore, fotografo, cineasta, attivista del movimento gay, in quel lontano 1986 quando, dopo tredici anni di dittatura in Cile, Pinochet promuove una consultazione popolare sicuro di vedere ancora confermato il suo potere autocratico. In un movimento circolare e musicale, quasi in forma di rondò, l’autore costruisce un contrappunto sonoro al racconto alternando “versi” di canzoni popolari d’amore fuori moda, sentimentali e nostalgiche care al protagonista – in morbido corsivo nel testo – agli spigolosi notiziari in maiuscolo, asciutti e taglienti della Cooperativa-Radio Maggioranza, intrecciando contemporaneamente sui due versanti del racconto (la vita sociale colorata e pittoresca del quartiere/ i luoghi aridi, fatui e mortiferi del potere) metafore e temi comuni: torte e feste di compleanno, tovaglie ricamate, cappelli gialli e a falda larga, colibrì e condor, auto-nido e auto-bunker.
Il tutto rappresentato attraverso un icastico linguaggio letterario, effervescente di accostamenti visionari modernamente barocchi (perla triste rimasta senza mare, sgorbio disarticolato del disamore,…) o di ricercate litanie profane di epiteti (mano gabbiana, mano farfalla, dita vespe….) che sorprendono continuamente il lettore mai impigrito nel processo d’interpretazione simbolica del testo.
I personaggi del dittatore sanguinario e della sua molesta e logorroica consorte, ritratti nella prosaica routine domestica della coppia, escono dalla penna dell’autore sgonfiati della prosopopea di facciata del potere. Inchiodato alle sue paure subconsce e alle sue lugubri nevrosi il primo, meschina, superstiziosa e sciocca la seconda, fanno da specchio negativo alla coppia Carlos-Fata dell’angolo che invece, cambiati positivamente dalle vicende politiche vissute insieme, nel loro ultimo toccante e inevitabile saluto avvolti da uno struggente tramonto della baia di Valparaiso, si rivelano ambedue divenuti capaci di sentimenti profondi, sinceri, autentici, generosi, maturi.
Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura.
Il libro è piaciuto a tutte. Si è detto che l’ironia che lo percorre, riesce a tenere insieme due storie parallele, da una parte la storia sontuosa dai mille colori di un amore impossibile e dall’altra le figure grottesche, opache e pallide di Pinochet e sua moglie, raccontati nel loro privato e ferocemente messi a nudo, in totale contrapposizione alle pagine dedicate alla Fata dell’angolo e alla vitalità di Carlos e dei suoi amici.
Si è detto che questo breve e intenso romanzo, l’unico di Lemebel, è proprio un ricamo poetico, un ricamo come quelli con cui la Fata dell’angolo decorava le sue tovaglie, in pagine dove alcuni testi di canzoni popolari fanno da contrappunto ad una prosa sontuosa, elaborata e mai volgare. Si può considerare questo libro anche come un romanzo di formazione, pensando al percorso di maturità politica raggiunta dalla Fata dell’angolo, mentre il giovane Carlos impara a scoprire “l’altro” da rispettare e non solo strumentalizzare. E’ stato definito un romanzo struggente, tragico e grottesco, infatti nelle sue pagine traspira soprattutto passione umana e passione politica, filtrate da un’ironia che colpisce facili sentimentalismi e soprattutto il potere, rappresentato da vari siparietti di vita quotidiana della coppia Pinochet.
Sono stati ricordati Il bacio della donna ragno di Manuel Puig e Notturno cileno di Roberto Bolaňo, uno per la condivisione di alcuni temi e l’altro per il richiamo ad una pagina barocca, ed entrambi per la presa di posizione politica contro la feroce dittatura in Cile.
Su You Tube è possibile vedere alcune scene del film “Tengo miedo torero” del regista Rodrigo Sepulveda con Alfredo Castro e Leonardo Ortzgris, oltre ad alcune interviste allo scrittore.
E’ stato inoltrato sulla chat di LeggerMente il testo “Parlo per la mia diversità” , un vero e proprio manifesto umano e politico.
A fine incontro sono state lette le ultime righe di Quarta lettera da “Baciami ancora, forestiero“, di Pedro Lemebel:
“…E in questa vertigine ti scrivo, in questa vertigine immagino i tuoi occhi che mi seguono nella scrittura. E, magari, questo momento, in cui lettura e lettera, occhio e cuore, voce e silenzio, acqua e aria, ritrovano l’orizzonte vago di quel pomeriggio portuale, di fronte al grande anfiteatro di Valparaíso, dove feci un sogno da trapezista, senza rete… perché tu eri il mare.”
Siamo 25, più Nicola, il nostro autista preferito, con il pullmann di Starbus da 52 posti che ci consente un viaggio più comodo, considerato che dovremo indossare per tutto il viaggio – sette ore comprese le due soste regolamentari – le famigerate mascherine anti Covid. Lucia apre un’anteprima di viaggio con le sue letture vecchie e nuove per farci pregustare i luoghi che visiteremo.
A Spoleto ci accoglie un albergo di fascino, l’Hotel San Luca. Con la guida, Daniela Cittadoni, iniziamo la visita della città di Spoleto, resa meno faticosa, visto che dal piano dovremo salire fino al punto più alto, da un modernissimo sistema di tapis roulant (percorso sotterraneo meccanizzato) che, attivato di recente, ha suscitato interesse nella comunità urbanistica internazionale, come un innesto perfettamente riuscito nell’impianto medievale della città. E’ così che in pochissimo tempo ci troviamo ai piedi delle mura ciclopiche (ne é facile la lettura stratificata dall’età preromana all’età moderna) per poi, in pochi passi, arrivare al belvedere tra la Rocca di Albornoz, il Ponte delle Torri e il bosco sacro di Monteluco di fronte a noi. Daniela ci fa una bella e avvincente panoramica sulla storia di Spoleto. Il tempo vola: ci affrettiamo verso piazza Duomo. Magnifica la prospettiva della facciata in fondo alla lunghissima scalinata; tutta la piazza é già sistemata con le sedie per gli spettacoli del Festival dei Due Mondi aperto pochi giorni fa. E tutto intorno nobili architetture, e il Teatro Caio Melisso, e la casa di Giancarlo Menotti, che del festival fu il fondatore e l’anima. Il culmine nella visita del Duomo é lo stupendo ciclo absidale di Storie della Vergine di Filippo Lippi, ultimato dopo la sua morte dai suoi aiutanti. Suggestiva anche la Cappella della Santissima Icone, dove si conserva la icona bizantina che Federico Barbarossa donò alla città in segno di riconciliazione dopo averla distrutta tempo addietro! A questo punto Daniela ci saluta, mostrandoci la strada del ritorno, che si conclude con una discesa dalla pendenza ripidissima, una bella scorciatoia che ci porta in men che non si dica in albergo.
Cena a La Pecchiarda, in esterno sotto il pergolato, con un menu decisamente “umbro” tra norcinerie varie e gli strangozzi alla spoletina ovvero alla “fuga di Annibale”.
Mercoledi 29 Giugno
Lasciamo la valle Umbra e ci spostiamo in Val Nerina con Monia, che oggi sarà la nostra guida. Attraversiamo paesaggi verdi e ombrosi, rasentiamo Santa Anatolia di Narco, località nota per la coltivazione della canapa. Di tanto in tanto si intravede, più in basso, il corso del fiume Nera, lungo il quale correvano i binari della vecchia ferrovia Spoleto-Norcia, capolavoro di ingegneria ferroviaria. E intanto Monia attira la nostra attenzione sulla geologia del luogo e sui fenomeni sismici ricorrenti fino a quelli del 2016 che hanno portato distruzione e morte.
Strada facendo Monia ci racconta altre curiosità: con Borgo Cerreto ha a che fare l’origine della parola “ciarlatano”, una storia di tasse mal digerite all’ombra dello stato pontificio che spinge alcuni soggetti a “organizzarsi” a mò di imbonitori in stile Vanna Marchi; l’antica scuola chirurgica di Preci forse collegata al culto della dea Cibele o alla presenza ebraica nella zona; una insolita presenza di una fabbrica artigianale di cioccolato e via dicendo.
A poco a poco ci addentriamo nel Parco dei monti Sibillini, da qualcuno definito “luogo di millenaria instabilità”. Spesso la visuale del paesaggio é ostacolata dalla crescita degli alberi che a quanto pare da queste parti si é restii a tagliare per ragioni di rispetto ambientale. In prossimità delle Forche Canapine, meta sciistica del fine settimana, ci imbattiamo nella vista impressionante del rifugio Perugia mezzo crollato per il terremoto.
Finalmente, avvicinandoci, cominciamo a scorgere le macchie multicolori della fioritura delle lenticchie nella Piana di Castelluccio, cuore del viaggio. Il nostro Nicola perlustra pazientemente la zona alla ricerca di un parcheggio per il pullmann che ci permetta di tuffarci in quel mare colorato, e finalmente ci immergiamo felici tra i colori, dove il bianco della lenticchia si fonde col blu del fiordaliso, col giallo della colza e della senape e col rosso del papavero. Mi pare di sognare perché i fiordalisi che disegnavo nell’album delle elementari li immaginavo e basta, non avendoli mai visti! Intorno la piana a perdita d’occhio coronata dai monti, tra cui spicca il MonteVettore, con l’interessante fenomeno carsico dell’inghiottitoio e la faglia, inquietante cicatrice nel ventre della montagna. In questi luoghi martoriati ci sono anche, come Monia ci dice, splendidi esempi di immigrazione e integrazione di pastorizia, i sardi insieme a bielorussi ucraini e moldavi, in maggioranza, perchè gli italiani oramai rifiutano questo genere di lavori. E’ arrivato il momento di lasciare Castelluccio e scendere a Norcia. Da lontano il paese ha la forma di un cuore, dicono, o piuttosto – dice Monia – di un’ellisse un pò sbilenco! Arrivarci oggi dopo quel terribile terremoto mette tanta tanta tristezza. A cui si aggiunge lo sconcerto nel constatare che il processo di ricostruzione sembra essersi arenato, dice Monia, per mancanza di fondi. Mah. Mi sembra vergognoso e imperdonabile. La comitiva si muove in ordine sparso alla ricerca di punti di ristoro che offrano, possibilmente, riparo dalla calura di questa precocissima estate. E tutti più o meno scegliamo di fermarci intorno alla piazza dove sorge l’edificio del teatro Civico, inaugurato nel 1876, e quindi leggermente più anziano del nostro Petruzzelli.
Subito dopo scopriamo durante la passeggiata esplorativa al seguito di Monia il centro storico di Norcia fortemente segnato dal sisma, con segnali di ricostruzione qua e là. Un bell’esempio lo ha dato Brunello Cucinelli, illuminato imprenditore del cachemire, con il restauro della Torre Civica del Palazzo comunale. Anche l’Eni interviene con un progetto multimediale di comunicazione (Norcia Live Stones). Nella piazza san Benedetto, dove si concentrano i principali edifici, desta profonda impressione la vista della chiesa dedicata al santo, patrono d’Europa, di cui resta in piedi la sola facciata. Sembra aver retto alla furia del terremoto, almeno all’apparenza, la Castellina, imponente Fortezza cinquecentesca, mentre anche la concattedrale, a poca distanza, ha subito danni notevoli dal terremoto.
Prima di risalire in pullmann tanti di noi non mancheranno di fare acquisti nelle botteghe di prodotti tipici del luogo, tra tartufi e norcinerie varie. Sulla via del ritorno a Spoleto scopriamo un gioiellino, Vallo di Nera, comune con poco più di 300 abitanti ampiamente meritevole di essere incluso tra i borghi più belli d’Italia. Silenzio, pace, aria buona e una intatta atmosfera medievale, frutto di una singolare compattezza architettonica. Sorpresa nella sorpresa, la chiesa romanica di Santa Maria Assunta con uno straordinario ciclo trecentesco di affreschi “votivi”, così li definisce Monia, tra cui l’interessante “Processione dei Bianchi”. Molti i particolari curiosi da notare, per esempio la precisione nella descrizione dei paesaggi, necessaria ad evitare che il santo a cui ci si votava “sbagliasse indirizzo”! O anche la Trinità raffigurata con tre teste. Adriana ci offre anche una sua riflessione sulle possibili analogie con il ciclo di affreschi nella chiesa di Santa Caterina a Galatina. Chiudiamo la visita di Vallo di Nera con il giro circolare del borgo, che ospita anche la Casa dei Racconti, centro di ricerca e documentazione sulla tradizione orale. Allontanandoci dall’abitato vediamo scorrere le limpide acque del Nera. All’incrocio Monia ci indica la sindaca del paese, sua buona amica, e noi le rivolgiamo un fragoroso applauso.
Dopo un relax rigenerante, anche stasera ceniamo a La Pecchiarda. Ci viene raccontata l’origine del nome: “pecchia” (ragazza molto carina) – “arda” (alta), allusione all’antica titolare del locale, bella ragazza alta che nel lavare i panni al fiume si alzava le vesti mostrando le sue grazie. Applausi per le tagliatelle al tartufo e per l’ottima carne. Nel dopocena, Lucia piloterà la conversazione verso un embrione di programma di viaggio (sogni e chimere?) di traversata dell’Atlantico verso il Nuovo Mondo. Un altro gruppetto, me compresa, sceglie di inerpicarsi per scale e scalette per scoprire gli incanti della notte spoletina attraverso le due piazze principali in piena movida – Mercato e Libertà, da un angolo estremo di quest’ultima gettiamo lo sguardo al di là delle sbarre di ingresso al Teatro Romano; l’Arco di Druso di età augustea; la scenografica scalinata di piazza Pianciani, e il ritorno studiato sulla mappa con il conforto di gentilissimi passanti.
Giovedì 30 Giugno
Il giorno della partenza é arrivato. Depositati i bagagli nella hall dell’albergo facciamo colazione. Scopro un pianoforte Yamaha e ne approfitto, seguita a ruota da Lucia, affezionata al celebre motivo di Nino Rota. Nel viaggio di ritorno facciamo sosta a Piediluco, dal 2016 parte del club dei borghi più belli d’ Italia sulla sponda del lago omonimo. Il programma iniziale (passeggiata nel borgo poi navigazione sul lago) viene prudentemente invertito per evitare le ore più calde. Il giro – guidato dalla simpaticissima Silvana – inizia dall’edificio dell’ex scuola elementare in attesa di recupero e prosegue per un po’ ai bordi del lago con la colorata installazione di Giulio Turcato, Le Libertà, che rappresenta tanti cuori tutti diversi l’uno dall’altro. Silvana ci racconta quanto é speciale il luogo: meta di Grand Tour tra sette e ottocento; scelto dalla Federazione Nazionale Canottaggio per gli allenamenti (“la Coverciano del canottaggio”); immortalato da Corot coi suoi dipinti; scelto come prima sede (Villalago del barone Franchetti) di Umbria Jazz; il colore del lago, scuro per la presenza di alga rossa. Due montagne piramidali, speculari, monte Luco e monte Caperno, si affacciano sulle quiete acque del lago. Pesca di trote, salmerini, lucci. Vegetazione di canne, che si raccolgono per la produzione artigianale di cesti. Più oltre scopriamo, in cima a una ripida scalinata, la bella chiesa di San Francesco, edificata a ricordo del passaggio del santo, attestato nelle Fonti Francescane da Tommaso da Celano. Patrono del paese é però il Buon Gesù, festeggiato il 14 gennaio. La passeggiata prosegue al Rione Borgo, ricco di balconi e scalinatelle addobbate a festa con abbondanza di fiori e decori in preparazione della Festa delle Acque, prevista per il prossimo fine settimana. E’ ora arrivato il momento del giro in battello. Al timone Davide, molto simpatico ed esauriente nelle sue spiegazioni, collaboratore dell’Arpa di Perugia. Navighiamo lentamente, assaporando l’atmosfera. Lo sguardo si perde tra la calma superficie del lago e il verde che lo circonda da ogni parte. Isolato in cima a un colle, un paesino fiabesco, Labro. Di qua l’Umbria, di là il Lazio. Il momento più emozionante sarà quando, raggiunta un’ansa appartata del lago, nel silenzio totale potremo cogliere distintamente le voci del lago e dei suoi abitanti. Qualcuno di noi chiede a Davide informazioni sullo stato dell’ambiente, purtroppo in degrado rispetto al passato. Altre curiosità: l’eco che in un certo punto del lago si produce: ci provano alcuni di noi. Infine, scopriremo che Galileo Galilei andando in barca sul lago di Piediluco sperimentò la relatività del moto!
Felici e soddisfatti dopo la traversata sediamo affacciati sul lago all’ombra degli alberi ai tavoli del ristorante La Baraonda.
Se ben ricordo all’origine il menu contemplava una pasta con carciofi e salsiccia, ma Lucia ha chiesto il menu di lago, dandoci modo di gustare le prelibatezze del luogo, a partire dal “carbonaretto”, lo squisito salmerino sapientemente cotto sulla brace, i tagliolini al profumo di lago, la trota alle erbe, il tutto annaffiato da un buon Bianco Grechetto, e per chiudere, il sorbetto al limone. Lieto fine con il ritrovamento dello smartphone di una delle nostre amiche, come d’altronde era successo ieri con il telefonino riportato in albergo al legittimo proprietario da un Carabiniere giovane, bello e gentile!
Chiusura di Lucia con le riflessioni e le letture di fine viaggio e applausi meritatissimi per Nicola che con tanta calma e pazienza ci ha riportato a Bari.
Alejo Carpenter, “L’Arpa e l’Ombra“, Traduzione di Angelo Morino, Ed.Sellerio, 2020
proposto da Rosa Giusti.
di Rosa Giusti
Cristoforo Colombo…E’ stata la curiosità su questo personaggio a spingermi alla lettura de L’arpa e l’ombra, chè di lui tratta, in forma di romanzo storico, lo scrittore cubano Carpentier (1904-1980). E di fatto il libro mi è servito a “scoprire” Colombo, colui che nell’accezione comune ha “scoperto” l’America. Ma insieme con lui ho “scoperto” Carpentier. Un bel risultato davvero, perché opera e autore si sono rivelati ben al di sopra delle mie modeste aspettative di approfondimento su Colombo. La nazionalità latino-americana dell’autore presagiva una storia diversamente raccontata dall’altra parte del mondo e già questo mi pareva un elemento di novità interessante. Nella prima edizione di “El arpa y la sombra” (1979), attingo dalla postfazione di Angelo Morino, “Carpentier annotava di sentirsi irritato dall’insistenza agiografica del libro su Colombo di Claudel e più ancora da quello di Leon Bloy nonché dalle proposte della chiesa cattolica di beatificare il navigatore genovese e, rivendicando il diritto dei latino americani ad avere storia e identità proprie, che non fossero riflesso di quelle europee, si dedicava alla demistificazione di Colombo, non mirando ad “abbatterne le statue”, ma semplicemente a consegnarlo alla verità di uomo del suo tempo”. Per scrivere in questa ottica, Carpentier si documenta attingendo a fonti storiche, e genialmente, struttura il libro sulla tentazione della Chiesa di fare santo Colombo, regalandoci una storia in massima parte vera e in parte verosimile, come deve essere un romanzo storico. Nel primo capitolo ci imbattiamo in Pio IX che esamina la pratica di Colombo: ci sentiamo immediatamente avvolti in un’atmosfera tutta papalina, ridondante di ori e di riti e di gerarchie e di intrighi, descritta con modalità stilistiche involute e barocche. Il pontefice, che ha direttamente visitato l’America meridionale rimanendo impressionato dalla vastità dei paesaggi e dalla vivacità di una economia in fieri, è fatalmente attratto dal varo di un santo dei due mondi, di un santo marinaio, ponte tra l’Europa e l’America, che riconfermerebbe Urbi et orbi, l’autorità e il dominio della chiesa di Roma Nel secondo capitolo incontriamo Cristoforo Colombo morente, a Valladolid, in attesa del confessore. Qua la scrittura diventa discorsiva, intima: un uomo è deciso a ripercorre i momenti salienti della sua vita con sincerità, a fare un esame di coscienza. Intende ammettere i molti vizi e le poche virtù che lo hanno contraddistinto e riconciliarsi e riconsegnarsi al Creatore. Ed è in questo capitolo che ci avviciniamo a Colombo, partecipando alla sua vita densa di avvenimenti speciali, di viaggi, avventure, amori e battaglie, tante battaglie, per raggiungere il fine che dà il senso ultimo della sua esistenza: solcare mari sconosciuti, scoprire nuove terre. E’ un genovese e un navigatore a cui stanno strette le rotte mediterranee o artiche, vuole andare ad ovest, dove ha subodorato la possibilità di approdi diversi, già raggiunti partendo da nord, dai Vichinghi… Riesce con enorme sforzo dialettico a convincere Isabella, regina di Spagna, a finanziare la sua impresa, le promette di trovare una nuova via per le favolose Indie da cui ricavare tesori inimmaginabili. Le tace la sua convinzione di “scoprire” un diverso continente. Il Colombo morente parla diffusamente dell’arduo viaggio con le tre caravelle, del sospirato e finalmente realizzato arrivo sulla terra ferma, della delusione di non avervi trovato oro, della spasmodica ricerca di altri beni di valore da poter esibire alla regina. E del suo ritorno in Spagna, con il clamore e il trionfo iniziali e le successive pesanti critiche. Ma dà anche spazio al punto di vista degli Indiani, a come essi percepiscono gli Europei “conquistatori” in maniera assolutamente negativa, non solo per la prepotenza e l’avidità, ma anche per le abitudini del loro normale modo di vivere quotidiano: scarsa igiene, sovrabbondanza di vesti, maschili e femminili, l’andare in giro armati come se fossero in guerra… Da tanta narrazione, avvincente narrazione, il personaggio Colombo si definisce nella sua realtà e si può dire che finalmente lo si può conoscere per davvero. Si può ammirarlo per aver inaugurato l’Uomo Nuovo, con la sua sete di conoscenza anche se non disinteressata, pragmaticamente pronto a tutto per perseguire i suoi scopi, e lo si biasima per aver strumentalizzato esseri umani, per aver inaugurato un colonialismo deteriore, per aver schiavizzato i nativi e per venderli al mercato di Siviglia. Da ultimo, assolutamente perso il senso del sacro, pure incantato dalla natura maestosa dei luoghi raggiunti, Colombo pensa di poterli “vendere sul mercato europeo” come l’Eden ritrovato, per ricavarci profitti. Nel terzo capitolo si consuma l’ultimo atto del processo di santificazione, ora di competenza di papa Leone XIII. Come ben sappiamo, Colombo non sarà il “San Cristoforo delle Indie”. In questo finale, lo stile di Carpentier ancora una volta stupisce. Smessi i toni barocchi e colloquiali, il suo linguaggio estremamente duttile si fa ironico e creativo raggiungendo toni divertenti, senza mai perdere la profondità. Il lettore non può che goderne e nello stesso tempo ammirarne la formidabile capacità letteraria. Apprendo che L’arpa e L’ombra non è fra le migliori opere di Carpentier, che è forse la più brutta. E quindi non posso che accingermi a leggere altri libri, di questo fantastico autore.
Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:
L’argomento, la scrittura e la struttura del libro sono stati molto apprezzati. Non a caso Rosa ne aveva proposto la lettura proprio quando nei mesi precedenti in molti paesi al di là dell’Atlantico, c’erano state manifestazioni con abbattimento di diverse statue di Cristoforo Colombo. Il protagonista di questo libro è preso in prestito per parlare del nodo mai risolto che continua a legare nel bene e nel male la Vecchia Europa ai paesi del cosiddetto Nuovo Mondo. Si è detto che “L’Arpa e l’Ombra” è un romanzo storico fra vero e verosimile, scritto con una prosa ricca e immaginifica, soprattutto nella descrizione delle isole caraibiche, dove Colombo era approdato, un Eldorado descritto con bellissime pagine dai colori barocchi. E’ stato particolarmente sottolineato come Carpentier evidenzi il rapporto ambiguo fra Nuovo e Vecchio Mondo, come lo renda e come, con grande capacità, riesca ad entrare nella realtà di un periodo storico molto complesso.
La cattiva coscienza degli europei è una presenza costante nelle sue pagine. Dopo un inizio con una scrittura quasi curiale e la seguente esplosione con descrizioni dai colori vividi dei paesi caraibici, il libro si conclude con pagine dall’ironia che ha fatto ricordare quelle di M. Bulgakov. Si è sottolineato che i protagonisti di “L’Arpa e l’Ombra” e di “Notturno cileno” di R. Bolaño, entrambi a fine vita ne fanno un esame lucido e profondo, ma mentre nel libro di Bolaño si assiste ad una tragedia, in questo di Carpentier c’è cronaca di alto livello ma non dello spessore e della profondità dell’altro. E’ stato citato “Il secolo dei lumi” di A. Carpentier.
Roberto Bolaño, “Notturno cileno“, traduzione di Ilide Carmignani, Adelphi, 2016
proposto da Luciana Cusmano
di Luciana Cusmano
“Fare letteratura è un mestiere pericoloso”, afferma Bolano, “perchè la vera letteratura è sapere ficcare la testa nel pozzo, nel buio del male, sapere saltare nel vuoto”.
Il delirio notturno di un sacerdote, che in una notte drammatica ripercorre eventi della sua vita, serve a Bolano per denunciare i compromessi e le viltà di una classe di intellettuali resasi complice del potere che ha schiacciato il Cile.
Il linguaggio fluido, ricco di metafore, spesso surreale, dalle forti connotazioni metaletterarie, fà di Bolano uno degli innovatori della letteratura latinoamericana, che si sottrae alle convenzioni di un realismo magico, saturo di epigoni, attraverso il dialogo con una tradizione sovranazionale e di aspirazione cosmopolita.
Breve nota a cura di Isa Bergaminidopo l’incontro del gruppo di lettura:
Il dialogo è stato intenso e appassionato per questo libro molto amato e definito come un piccolo grande libro rivoluzionario per i temi e soprattutto le modalità di tradurli in una pagina densa, in un racconto che dice ma non svela, lasciando al lettore la ricerca nel profondo di segni rivelatori. Infatti molte di noi hanno voluto rileggerlo una seconda volta, con grande piacere.
In particolare, si è messo in evidenza l’intensità con cui il protagonista in un continuo ininterrotto flusso di coscienza alla fine dei suoi giorni ripercorre una vita di compromessi e di tradimenti nei confronti di quel doppio di sé, da lui chiamato il “giovane invecchiato”, in pagine che si rincorrono con un ritmo incalzante.
Si è detto che Bolaño, con un racconto denso e non semplice, rende il protagonista, il cileno gesuita dell’Opus Dei Sebastian Urrutia Lacroix uomo di cultura vasta e profonda, il testimone in negativo di quanto egli pensasse sulla funzione e la responsabilità dell’intellettuale nella vita politica e sociale del suo tempo e del suo paese. Tutto il libro è un dialogo interiore che rivela un percorso di consapevolezza e non di pentimento, testimoniando dall’interno l’assenza di etica con un diretto e profondo atto d’accusa al mondo dei letterati e delle gerarchie ecclesiastiche. E’ stato anche evidenziato che il libro a un consapevole realismo affianca anche evidenti e complessi riferimenti simbolici, infatti sono state citate reali figure di intellettuali cileni oltre ai falchi e alle colombe produttrici di “merda”.
L’incipit forte e potente apre la prima pagina del libro che si chiude coerentemente con l’ultima che suscita in chi legge interrogativi esistenziali e storico politici. Si è sottolineato anche che in molte pagine si trovano testimonianze della profonda cultura dell’autore, testimone impegnato del suo tempo non solo con i suoi libri ma anche con difficili scelte di vita. Si è detto che i modelli europei e in particolare J.Joyce sono evidenti nella formazione culturale di R. Bolaño ed è stata in particolare sottolineata la presenza di numerose citazioni dantesche, dei colori delle poesie di Charles Beaudelaire ed infine di diversi rifermenti alla cultura greca.
E’ stato notato che i nomi che compaiono nel libro rispondono a una precisa e consapevole scelta dell’autore: Farewell vuol dire Addio, Oido palindromo odiO anche in spagnolo, Aruap palindromo di paurA in italiano, infine Lacroix che è il secondo cognome del gesuita protagonista.
l’Adirt incontra Marco Caratozzolo, docente di Lingua e Letteratura russa dell’Università di Bari, presso la sede della C.G.I.L, Fondazione Rita Maierotti, via Giuseppe Volpe n.4.
“I gemelli di San Nicola”: il seme dell’accoglienza in un tesoro russo trovato per caso. Una Bari vecchia vivacissima attraverso le pagine di Vasilij Nemirovič-Dančenko, scrittore russo di fine ‘800, scoperte nella Biblioteca Lenin di Mosca da Marco Caratozzolo e da lui curate e tradotte per Stilo Editrice.
In mattinata visiteremo il Pulo di Molfetta, caratteristica dolina creatasi per il cedimento della volta di numerose cavità sotterranee, di forma ovoidale, profonda 30 m, scavata nella roccia di origine carsica, a circa 1,5 km dal centro della città di Molfetta, in direzione sud-ovest. Di grande interesse dal punto di vista geologico, storico, archeologico e non di meno, importante per la sua biodiversità botanica e faunistica.
Seguirà la visita al Museo del Pulo e un aperitivo sul porto di Molfetta.
Soci e Simpatizzanti interessati sono invitati quanto prima a comunicare telefonicamente (vedi numero a piè pagina) la propria adesione.
E’ richiesta la data di nascita e il luogo di residenza. Inoltre, dovendo muoverci con mezzi propri, per poterci organizzare al meglio, è opportuno che i partecipanti informino se intendono utilizzare il proprio mezzo ed eventualmente se desiderano condividerlo.
Informazioni più precise circa orari e luoghi verranno fornite dopo le adesioni.
Elsa Osorio, “Lezione do Tango“, traduzione di Roberta Bovaia, TEA 2006.
Proposto da Franca, Maria Grazia e Teresa.
di Franca Botrugno, Maria Grazia Toma e Teresa Santostasi.
Il ricordo di un viaggio amato, Buenos Aires, la Plata, la musica, l’abbraccio della gente argentina e il desiderio di una lettura che si preannunziava coinvolgente, un titolo stimolante “il solletico ai piedi e a tutto il corpo che chiedeva Tango”, per tornare finalmente a danzare, dopo la pandemia.
Franca, Maria Grazia e Teresa per ragioni differenti, a settembre 2021, hanno proposto di leggere insieme “Lezione di Tango”, della scrittrice argentina Elsa Osorio. Franca e Maria Grazia lo hanno già letto durante il bel viaggio in Argentina che risale a tanti anni fa; lo propongono per rivivere le atmosfere del Tango e per provare a “ballarlo” con le amiche del gruppo di lettura. Teresa, che non lo ha ancora letto, si è lasciata sedurre del titolo e dalla recensione che racconta di una danza simbolo dell’identità argentina, dove il Tango prende parte alla vita dei personaggi, intrecciandosi con le loro storie e avendo come sfondo la situazione politica del paese sudamericano di fine ottocento, dalle prime ondate immigratorie, i primi moti socialisti, fino alla dittatura militare nel 1930.
Il racconto è una saga corale di diverse generazioni nella quale si muovono numerosi personaggi collocati in tempi e luoghi diversi con i quali non è stato facile destreggiarsi nella lettura. In una milonga parigina si incontrano Ana, giovane sociologa ricercatrice nata a Buenos Aires, ma emigrata da piccola in Francia e Luis, un regista argentino di passaggio a Parigi. Entrambi hanno la passione per il tango. Il pretesto narrativo nasce dal passato argentino che accomuna i due personaggi: il bisnonno di Ana, Hernàn Lasalle, era un grande ballerino di tango e Asunciòn, bisnonna di Luis e domestica in casa Lasalle, che condivideva con Hernàn l’attrazione per il tango e un amore impossibile.
La particolarità del romanzo, il cui titolo originario è “Cielo di Tango”, è la presenza di un personaggio incorporeo, il Tango, che diventa qui simile ad un luogo dove i diversi personaggi oramai defunti, tornano a vivere come voci di un Coro in remoto che commentano e partecipano emotivamente alle vicende dei viventi, tanto quanto i personaggi stessi.
Di non semplice lettura, il racconto della Osorio, sovrapponendo tempi diversi, discorsi diretti ed indiretti, trasferendo un soggetto narratore ad un altro, ricorda il ritmo del Tango basato sull’improvvisazione, caratterizzato dall’eleganza delle pause, da movimenti rigidi, con brusche impennate, casquet e dalla passionalità. La storia raccontata è in realtà l’evoluzione del Tango la cui musica risuona in ogni pagina, trasmettendo un sentimento di passione, ma anche di amarezza e malinconia che prende origine dalle storie di migrazione nel’’800. L’Autrice esprime nel suo racconto, l’anima del Tango, un ballo che è diventato parte integrante della cultura argentina, dove immigrati e crillos si sono fusi in una danza che è anche un abbraccio.
“E in noi che lo balliamo” dice Carlota “il corpo si muove con una volontà propria, indipendente da ogni idea…come se fosse posseduto…lasciarsi abitare da Tango”; “Quel che è certo è che Tango si è espresso attraverso di noi”, dice Hernàn, “tutti insieme nessuno in particolare, abbiamo fatto Tago e per questo siamo qui. Ce lo siamo conquistati”.
Breve nota a cura di Isa Bergaminidopo l’incontro del gruppo di lettura:
E’ stato detto che il libro non è del tutto riuscito sotto vari aspetti. Deludente in particolare perché non sa far parlare la storia come invece si riprometteva e in qualche modo ammicca al modello del romanzo ottocentesco europeo. I personaggi percorrono pagine in un intrico di situazioni, luoghi e tempi diversi che si sovrappongono e che rendono ardua la lettura, tanto che per renderla più agevole è stato necessario costruirsi una mappa con nomi e relazioni di parentela.
Il libro è stato definito in parte artificioso, costruito con frammenti di cronaca, non raggiungendo così né profondità né emozione nel delineare i personaggi.
Il Tango non è l’unico protagonista perché la storia è corale, con un racconto che procede proprio come un tango con slanci, pause, riprese e inversioni di rotta, che sono proprio la nota o meglio lo spartito di questo libro con tutte le difficoltà che ne comporta la lettura. Il testo risulta alcune volte divertente, ma in definitiva deludente.
Sono stati anche evidenziati alcuni caratteri specifici di una parte della tradizione latino-americana, il rapporto con i morti, la presenza di una meta-realtà sia a livello collettivo che personale.
Naturalmente si è parlato del Tango e sono stati citati:
il film “Lezioni di tango” di e con Sally Potter, film del 1997. Il film non ha alcuna relazione con il libro di Elsa Osorio
“Il Tango” di Jorge Luis Borges, Adelphi, 2019
“Evaristo Carriego” di Jorge Luis Borges, Einaudi, 1972
l’Adirt organizza un incontro presso la sede delle C.G.I.L, Fondazione Rita Maierotti, via Giuseppe Volpe n.4.
Arte in due:
Larionov (Tiraspol 1881) e Goncharova (Negaevo 1881)
Dialogo senza frontiere
Con Katia Ricci, docente e critica d’arte, scrittrice, curatrice di mostre e cataloghi di artisti contemporanei, cofondatrice del circolo culturale “La merlettaia” che ha sede a Foggia e che si occupa di libertà civili e di emancipazione delle donne.
Jorge Amado, “Cacao“, traduzione di Daniela Ferioli, Einaudi, 2015. Proposto da Elisa Cataldi.
di Elisa Cataldi
Alla fine del 1800 – inizi del 1900 l’Europa e l’America del Nord si scoprono golose di Cioccolata: questo rappresenta lo stimolo per i latifondisti (o aspiranti tali) dell’America Latina ad una deforestazione selvaggia per fare spazio a monocolture di CACAO. Gli stati a sud di Bahia diventano l’Eldorado anche per migliaia di braccianti che si trasferiscono nelle “fazendas” col miraggio di guadagni che migliorino la loro atavica miseria. I proprietari delle piantagioni però, conoscono una sola legge: la produzione del Cacao e la sua quotazione. Lo sfruttamento della manodopera diventa clamoroso, configurando condizioni di vera e propria schiavitù.
Jorge Amado, all’età di 20 anni, nel 1933, avendo assistito direttamente a queste perequazioni sociali in quanto figlio di un proprietario terriero, grande produttore di cacao, scrive questo piccolo libro di denuncia (116 pagine) che risulta molto efficace e coinvolgente. Lo stesso Autore dice che non si tratta di un romanzo, non è letteratura, non vi è raccontata una storia vera e propria, ma dopo averlo letto risulta chiaro che oltre l’impegno politico, siamo di fronte ad un’opera di altissima letteratura, eccome!!! Si tratta di uno spaccato di quella società fatta di soprusi ed ingiustizie, che J. Amado denuncia con una scrittura semplice e diretta ma con la eccezionale capacità affabulatoria coinvolgente e ricca di sensualità, che caratterizzerà tutta la sua opera successiva.
Una miriade di personaggi vivi, pulsanti, dai sentimenti forti, intensi nell’allegria come nel dolore. Personaggi di fronte ai quali non si può restare indifferenti, così ben disegnati nel loro profilo psicologico, che non si fa fatica a riconoscere il prepotente, l’ingenuo, l’arrivista, il cattivo, l’amico, l’arrogante etc. Lo scrittore ci fa immergere in atmosfere di sopraffazione, di arroganza, di sofferenza, di rabbia, di odio, ma anche di amicizia, di solidarietà tra gli ultimi della terra e di estrema dignità. Un piccolo gioiello insomma, che ci fa comprendere i motivi di una svolta comunista e dell’inizio di una coscienza di classe come dice l’autore, “col cuore pulito e felice”.
Complementare a questa narrazione è risultato il supporto di: “Le vene aperte dell’America Latina” di Eduardo Galeano, che sviluppa le stesse tematiche anche se col taglio non più di un’opera letteraria, ma di una vastissima ed esaustiva inchiesta giornalistica.
Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:
Il libro è risultato a tutte molto interessante e anche coinvolgente. Interessante per i temi storici, politici e sociali nel Brasile dei primi anni ‘30, ma anche coinvolgente per la scrittura alta di J. Amado ancora in giovane età, quando scrisse questo libro. A più voci si è parlato di alta letteratura per la capacità dimostrata nel delineare i personaggi con pochi efficaci tratti e con una scrittura essenziale e diretta.
Molti i temi che il libro affronta e che sono stati colti e sottolineati.
J. Amado dichiara esplicitamente nella nota iniziale, il suo intento di aver voluto scrivere un libro politico, infatti la sua attenzione è in particolare focalizzata sulla presa di coscienza della solidarietà di classe da parte del giovane protagonista, intorno al quale si muovono personaggi appartenenti a classi sociali distanti e contrapposte che evidenziano le contraddizioni di quella società in quel momento storico. In particolare si è parlato della complessità di tutte le figure femminili, che anche in questo libro di J. Amado hanno una dimensione da protagoniste, come saranno ancor più nei libri scritti nella maturità.
Molto interessanti sono stati i riferimenti alla storia del Brasile fatti da Monica, che ci hanno permesso di cogliere una serie di sfumature che Amado è riuscito a far trasparire dalle pagine di questo piccolo e denso libro.
E’ stato fatto anche un ardito confronto con l’esperienza di Carlo Levi in luoghi e tempi diversi, ma con emozioni, scelte politiche simili e la volontà di denuncia di profonde ingiustizie sociali.
E’ stato detto che molti temi che J. Amado ha affrontato e denunciato nei suoi primi libri compaiono in “Le vene aperte dell’America Latina” di E. Galeano, scritto negli anni ’60. E’ anche stato sottolineato come ancora oggi la situazione di subordinazione delle classi lavoratrici rispetto alla classe dei padroni e al grande capitale internazionale, sia rimasta la stessa in America Latina dopo la violenta cancellazione di tentativi di nuovi ordinamenti democratici nel secolo scorso.
Accanto ai temi politici si è parlato della qualità letteraria di questo libro, per la sua costruzione, per il colore dal quale traspare il netto confronto etico ed estetico fra il mondo dei ricchi e quello dei “nati vinti”. Infine è stata sottolineata la felice chiusura del libro che si apre alla speranza, una speranza che nasce dalla consapevolezza dei propri diritti: “Partivo per la lotta con il cuore libero e felice”. Sono stati fatti riferimenti alle ricerche di Claude Lévi-Strauss, ai rapporti di J. Amado con J.P. Sartre e A. Camus.
Per un approfondimento sulla storia dell’America Latina al tempo della conquista, si è detto che è importante e molto interessante “La conquista dell’America. Il problema dell’altro” di Tzvetan Todorov, Einaudi.
nella Sala Consiliare del Palazzo della Città metropolitana di Bari, sarà presentato il libro dal titolo “Bari inedita – Il mare e la sua città” (Gelsorosso Editore), a cura di Marco Montrone, direttore responsabile della testata giornalistica Barinedita.
Oltre all’Autore interverranno Lucia Aprile, presidente ADIRT (Associazione Difesa Insediamenti Rupestri e Territorio) e Amalia Mancini, scrittrice.
Il volume celebra Bari, città di mare e sul mare. Attraverso una “passeggiata” suddivisa in sei tappe, da Santo Spirito sino a Torre a Mare, vengono raccontati edifici, porti, torri, moli, lame, oasi naturalistiche e spiagge che si trovano lungo i 58,9 chilometri di litorale barese. Luoghi che raccontano di antiche leggende, di vecchi mestieri, di pesci e pescatori, di venti e di cultura.
I capitoli, corredati da numerose fotografie, traggono spunto da diversi articoli pubblicati in questi anni da Barinedita, uniti in un vero e proprio racconto che si pone l’obiettivo di guidare il lettore alla scoperta dello “skyline” cittadino.
Poichè è importante conoscere il numero dei partecipanti, è necessario che entro domani mattina, Socie e Simpatizzanti diano la propria adesione chiamandomi al numero: 339.4029450
Elena Ferrante,“La vita bugiarda degli adulti”, Edizioni e/o, 2019, pag. 336. Proposto da Monica Mc Britton.
di Monica Mc Britton
Perché ho proposto la lettura di “La vita bugiarda degli adulti”?
Innanzitutto, perché è di Elena Ferrante e lei è una scrittrice italiana contemporanea che mi piace, la ritengo stimolante, complessa, non-banale e un esempio di scrittura femminile. Tutti questi elementi mi hanno fatto venire il desiderio di sentire anche voi, di avere un confronto. Del resto, il mio interesse per Elena Ferrante era sufficientemente solido da consentirmi di proporvi un testo che non avevo ancora letto.
In merito alla sua scrittura, ci sono una serie di interventi. Anche Lei interviene spesso. Trattasi di un modus operandi un po’ particolare. Come si sa, Elena Ferrante è pseudonimo: non sappiamo chi sia. Girano una serie di ipotesi. Francamente la questione mi lascia fredda. In definitiva, condivido l’idea che la personalità concreta di uno scrittore o una scrittrice è secondaria. Tuttavia, mi interessa molto la riflessione che un Autore o una Autrice fa della sua attività di scrivere. Così ho letto anche “I margini e il dettato”, pubblicato da Elena Ferrante nel 2021, che contiene tre lezioni all’Università di Bologna e un saggio su Dante. In queste lezioni, Lei sottolinea come è passata – anche grazie alla lettura di Adriana Cavarero, “Tu che mi ascolti, tu che mi racconti” (un libro che anche io amo molto) – da una scrittura fondata sulla narrazione autobiografica del personaggio femminile ad una narrazione, sempre in prima persona, ma fondata su una relazione (“L’amica geniale”) ad una pluralità di relazioni, come è il caso di questo romanzo.
In questo romanzo, appunto, non c’è solo il rapporto fondamentale fra Giannina e la zia Vittoria, il quale scatena una serie di altri rapporti, ma è anche la relazione che obbliga Giannina a rivedere i suoi rapporti con le sue amiche di sempre e quindi impostarli diversamente. In ultima analisi è un romanzo di formazione ed è intrigante l’espediente del braccialetto che, man mano che il testo si sviluppa, assume una dimensione quasi magica. In questo senso, può essere letto come una rivisitazione di un amuleto napoletano…Ed è anche il pretesto per evidenziare una serie di “bugie” degli adulti. Per ultimo, vorrei chiamare l’attenzione sulla rilevanza di Napoli e sulle soluzioni letterarie utilizzate per evocare il dialetto napoletano. Rispetto a quest’ultimo profilo, il dialetto è evocato, ma non puntualmente trascritto.
Post-scriptum: A seguito degli stimoli pervenuti dalla discussione, mi viene da aggiungere che questo sicuramente non è il miglior lavoro di E. Ferrante e quindi è non molto adatto a invogliare all’approfondimento della sua opera. Tuttavia, rimango convinta che, nel panorama, odierno, l’A. merita di essere letta.
Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:
“Romanzo di formazione; senza anima, non genera emozioni; storia ben articolata, molto ben raccontata la complessità delle relazioni fra le persone; romanzo mediocre sulla mediocrità; l’intreccio della storia è realistico e credibile; molto ben raccontata la psicologia dei personaggi, gli adulti con la loro pochezza e soprattutto la complessità dell’adolescenza; linguaggio ruvido; molto ben scritto; scrittura banale, sovrabbondante; personaggi senza sfumature; brutta copia dell’”Amica geniale”; noioso; retorico; la presenza di Napoli è ben costruita; Napoli è sbiadita non c’è il carattere della città; Napoli il macrocosmo in cui si muove una micro storia simile a tante; è un’operazione editoriale; è una scrittura autobiografica sulle relazioni fra donne; interessante uso indiretto del dialetto; racconto privo di spessore; il finale aperto è molto simile alle serie televisive; il finale aperto può voler dire una ripartenza nella vita della protagonista o della storia.
L’anonimato della scrittrice sembra una sapiente operazione di promozione; l’anonimato è una ragione di tutela della libertà personale.”
Tutto questo si è detto con toni diversi e contrastanti, sempre molto appassionati.
Durante la discussione sono stati citati:
“Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione”, Adriana Cavarero, Feltrinelli, 2001
“I margini e il dettato”, Elena Ferrante, ed. e/o, 2021
“Su tutti i vivi e i morti. Joyce a Roma”, Enrico Terrinoni, Feltrinelli, 2022
“Napoli porosa”, Walter Benjamin, Asja Lacis, Libreria Dante&Descartes, 2020
“Leggere gli uomini”, Sandra Petrignani, Laterza, 2021
L’Adirt visita un Laboratorio di restauro a cielo aperto nel quartiere Madonnella. Si tratta di Palazzo Ladisa, in corso Sonnino n. 144/b , progettato negli anni ’50 da Chiaia e Napolitano insieme con il pittore Gennaro Picinni.
Ora vi è un cantiere la cui direzione dei lavori è dell’arch. Riccardo Pavone mentre la direzione tecnica è dell’arch. Elisabetta Ranieri
Il nostro interesse nasce per l’attenzione posta dai residenti nella ricerca storica e per la conseguente azione di salvaguardia dei moduli architettonici e pittorici. Ci lavorano con passione e rigore le restauratrici Claudia Catacchio e Arianna Quarta, coordinate da Elisabetta Longo. Lavorano con tessere in vetro, ricreano i mosaici e li riportano nelle zone danneggiate. Tutto questo tra il portone del palazzo e la strada.
E’ necessario che i Soci diano la propria adesione muniti come sempre di mascherina e green pass. Info: 339.4029450 – 338.4639612
in allegato la foto delle giovani restauratrici di palazzo Ladisa
l’Adirt visita la mostra “Donne resistenti. Italia, Spagna, Germania, Francia” le donne nella Resistenza europea e le importanti pagine scritte da loro anche a Bari. La mostra è stata realizzata in Italia dall’ANPI provinciale di Bari e dalla sezione ANPI Bari Arturo Cucciolla. Con noi Nicola Signorile. E’ importante conoscere il numero dei partecipanti, sempre con green pass e mascherina FFP2. Vi invito a contattarmi al più presto.
l’inaugurazione della Mostra fotografica di Olga Diasparro “Ri-tessere” presso l’ex Palazzo delle Poste in piazza Cesare Battisti, su un progetto a cura di Giraffa Onlus e Fondazione Finanza Etica, mi dà l’opportunità di ricordare un bel momento del nostro “Andare Adirt”: la visita nel 2006 della “Fondazione Le Costantine”, nella frazione Casamassella di Uggiano la Chiesa(Le). Si tratta di un centro di attività agricola, artigianale e pedagogica nato per volontà di Lucia De Viti De Marco, figlia del noto economista Antonio. Un’oasi di pace immersa tra uliveti e macchia mediterranea che riunisce in una sola realtà l’ospitalità, la tessitura, l’agricoltura biodinamica e la formazione. Ci colpì in modo particolare il Laboratorio di tessitura artigianale “Amando e Cantando“ che produceva manufatti tessili realizzati su antichi telai in legno a 4 licci riprendendo tradizioni e tecniche risalenti a centinaia di anni fa. E soprattutto il progetto che, dando lavoro e autonomia alle donne, le rendeva protagoniste della loro vita in un contesto spesso chiuso e poco attento ai loro bisogni. Ci colpì il Racconto….. “Una bambina, non riuscendo a pronunciare la parola Signora, la chiamava Ora. Ella non poteva mettere in difficoltà quella bambina, e così volle essere chiamata Ora da tutte le persone che la circondavano. Da allora Lucia De Viti De Marco fu per tutti Ora.” Un grazie ancora oggi a Marinella Sorrentino e a Giuseppe Quinto che, da appassionati del Salento, resero possibile tutto questo.
…ed è per tutto questo che:
SABATO 29 gennaio 2022, ore 10.30, ex Palazzo delle poste, piazza Cesare Battisti 1, l’Adirt visita “Ri-Tessere”, la mostra fotografica che racconta per immagini il progetto ”Semi di futuro – Imprenditorialità femminile contro la violenza di genere” e che vede la collaborazione di Associazione Giraffa onlus, Fondazione Finanza etica e la Fondazione salentina Le Costantine. Con noi Olga Diasparro, autrice degli scatti e Maria Pia Vigilante, presidente di Giraffa onlus.
Vi invito a contattarmi al più presto.
E’ importante conoscere il numero dei partecipanti, sempre con green pass e mascherina FFP2. A presto.
Flannery O’Connor, “Un brav’uomo è difficile da trovare”, Minimum fax, 2021, p. 283. Proposto da Adriana Pepe.
di Adriana Pepe
La recente riedizione di questa raccolta di dieci racconti, la prima pubblicata da Flannery O’Connor nel 1955, ci ha dato l’occasione per accostarci a questa singolare scrittrice, una delle voci più originali della letteratura nordamericana della prima metà del Novecento. La bella traduzione di Gaja Cenciarelli preserva la straordinaria forza espressiva della scrittura della O’Connor, crudamente realistica ma anche densa di suggestioni emotive e visive. Sin dal primo racconto che dà il titolo alla raccolta – la storia pulp della strage, su una strada di campagna della Georgia, di una famigliola in vacanza, ad opera di tre assassini evasi – si evidenzia il feroce sarcasmo, il gusto del grottesco che costituiscono la cifra essenziale della narrativa della O’Connor. Caratteristiche che hanno fatto considerare questa scrittrice – nata a Savannah in Georgia e vissuta per la maggior parte della sua breve esistenza (1925-1964) nella fattoria di famiglia di Milledgeville – una esponente significativa della cosiddetta “Southern Gotic literature”. Grottesco, mistero, violenza, orrore sono aspetti tipici di questo filone letterario (Carson McCullers, Truman Capote, Tenneesse Williams, per certi versi anche W. Faulkner), alimentato dalla forte tradizione orale, intrisa di elementi afro, degli stati del Sud. Ma la O’Connor, nei suoi numerosi saggi sulla tecnica e il significato della sua scrittura, prende le distanze da questo tipo di narrativa. Animata da una salda fede cattolica (la sua famiglia è di origine irlandese), sostenuta da studi di teologia e sociologia, la O’Connor permea i suoi racconti di un profondo senso del divino e conferisce al grottesco e alla violenza una dimensione fortemente simbolica, espressione di una umanità marchiata nel corpo e nello spirito dal peccato originale. Una umanità che attraverso una situazione estrema, un evento traumatico, arriva a riconoscere la misteriosa azione salvifica della Grazia. I racconti, come i suoi due romanzi – La saggezza nel sangue (1952) e Il cielo è dei violenti (1962)- sono popolati da “brava gente di campagna” bigotta e razzista, da predicatori folli, falsi profeti, personaggi la cui tara morale si concretizza spesso in deformità fisica o psichica. Con l’arma del paradosso e di una feroce ironia la O’Connor esprime una dura presa di posizione verso gli aspetti deteriori della società – perbenismo ipocrita, razzismo, proliferazione di strane sette religiose- negli stati del Sud degli anni Cinquanta.
Per una più approfondita conoscenza di questa scrittrice: Fernanda Rossini, Flannery 0’Connor. Vita, opere, incontri, Edizioni Ares 2021
Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:
Per alcune è stata una vera scoperta questa grande scrittrice americana del ‘900, erede di W. Faulkner, N. Hawthorne e per certi aspetti anche di E.A. Poe.
Da tutte è stato particolarmente sottolineato l’alto livello della scrittura straordinaria, raffinata e densa di suggestioni, con uno stile asciutto e essenziale, apparentemente semplice e si è anche ricordata l’esperienza formativa della O’Connor come autrice di strisce a fumetti satirici. Differenti sono state le reazioni alle storie di questa umanità dolente e scomoda, condannata a un esito esistenziale oscuro. Il grottesco, l’orrore e il senso del mistero che caratterizzano parte della tradizione letteraria della letteratura del Sud degli Stati Uniti ricorrono nelle pagine di questi racconti, dove la violenza e l’infelicità trovano una promessa di riscatto solo nella profonda spiritualità e religiosità dell’autrice. Il suo pungente sarcasmo prende le distanze dal mondo bigotto delle tante sette religiose che già negli anni in cui lei scriveva, raccoglievano sempre più adepti in particolare negli Stati del Sud, ancora oggi espressione di un mondo conservatore e chiuso.
Si è detto che le storie di questi racconti riflettono un mondo di miseria morale, senza utopia, che al verificarsi di un imprevisto diventano dramma. E’ stato anche sottolineato che Flannery O’Connor aveva fatto studi di sociologia ed è stato evidenziato come, con i ritratti di una umanità predestinata al male, si sia collocata rispetto alla scuola teorica degli anni in cui aveva studiato.
In fine è stata posta la questione di quale fosse un possibile specifico femminile nella scrittura di Flannery O’Connor, decidendo di ritornare su questo tema in altra occasione.
Durante l’incontro si è fatto riferimento anche a Tennessee Williams, Truman Capote, William Faulkner, al cinema di Joel ed Ethan Coen, al film di John Huston “La saggezza del sangue “ del 1979 e al film documentario “Flannery” a lei dedicato del 2019.
SABATO 8 GENNAIO 2022 l’Adirt si è recata a Noicattaro per una visita guidata del Teatro cittadinonojano, ritenuto il più piccolo teatro d’Europa. Già nel 2010 avevamo prenotato una visita, ma all’ultimo non fu possibile perché luogo non ritenuto sicuro. Dopo più di 60 anni dall’ultimo spettacolo e al termine di un attento e accurato restauro ad opera dell’architetto Luigi Sylos Labini viene restituito alla collettività. Nel 2019 diventa famoso in tutto il mondo per essere stato il set di una delle scene più suggestive del film “Pinocchio” di Matteo Garrone.
Il Teatro all’italiana più piccolo al mondo è una struttura ipogea, ambientata in un vecchio trappeto del 1700, il “trappeto del Carmine”, appartenente ai duchi Carafa di Noja, antico nome di Noicattaro. La sua storia è un tormentato percorso fatto di divulgazione della cultura, dissesti finanziari e numerose “altre vite”. Nel corso della sua breve esistenza, il teatro è stato infatti anche un cinema, un deposito e persino un’abitazione di fortuna per alcuni sfollati.
Il Teatro nasce ufficialmente con la delibera comunale del 20 marzo 1869, ma già nel 1863, l’assessore Sturni, sulla spinta delle famiglie dell’alta borghesia locale, legate all’imprenditoria agricola, desiderose di offrire uno svago ai cittadini e ai contadini, aveva proposto di trasformare il vecchio trappeto in teatro che, grazie ad un abile lavoro di falegnameria, ha rappresentato per quasi un secolo un importante centro culturale e ricreativo. Per la riconversione della struttura, un privato aveva devoluto al Comune nojano la somma di 1.700 lire. Il progetto di conversione della struttura in teatro fu curato dal regio ingegnere Francesco Paolo Nitti.
Una volta giunti in via Carmine, non è difficile individuarlo, perché su un portone posticcio in metallo è ancora visibile la scritta, in stampatello: “Teatro cittadino”. Dall’ingresso parte una breve scalinata che conduce nell’ipogeo, dove troviamo due spazi ben distinti: a sinistra l’area destinata al pubblico e a destra quella utilizzata dagli attori.
Il Teatro all’italiana si caratterizza innanzi tutto per la netta separazione tra platea, cioè lo spazio per il pubblico, e proscenio, vale a dire la zona riservata agli attori, il cosiddetto “arco di proscenio”, cioè quella struttura, qui in legno, che separava visivamente i due ambienti, sulla quale sono ancora visibili gli stemmi del Comune nojano. A sinistra dell’arco di proscenio, si stende la platea e, sul fondo, si innalzano i due ordini di palchi, destinati rispettivamente all’alta borghesia e nobiltà locale il primo, alla plebe il secondo. Un’altra caratteristica del Teatro all’italiana – ci spiega la guida Viria Rescina – è proprio la netta separazione delle classi sociali all’interno della struttura: popolo e famiglie facoltose dovevano evitare ogni contatto e così, l’accesso ai due ordini prevede due ingressi diversi: a destra quello dei ricchi, a sinistra la scalinata che conduce al secondo ordine, detto anche piccionaia. Il primo ordine contava dieci palchi, il secondo nove. In totale il Teatro ospitava fino a 200 persone, che potevano stare sedute o in piedi. Le autorità cittadine avevano un palco a parte, cui si accedeva da una scala in legno e di cui oggi restano visibili i segni lasciai dai pioli nel tufo. A destra della scalinata d’ingresso è l’area destinata agli attori. Ancora oggi sui lati del quadrilatero che costituiva la base del palcoscenico sono visibili i fori delle travi che reggevano la struttura, mentre al di sopra, alcune travi di legno conservano le giunture che servivano a mantenere le varie scenografie. I camerini si trovavano sotto il pavimento, sul quale si aprivano tre botole: una per gli attori, l’altra per le attrici, una terza, infine, destinata al gobbo.
Il Teatro ebbe vita breve ma intensa e fu chiuso definitivamente intorno agli anni 60 del secolo scorso, successivamente murato per questioni di igiene pubblica. Nel 2006 il Fai (Fondo italiano per l’ambiente), ha commissionato il progetto di recupero del teatro all’architetto Luigi Sylos – Labini. Da un’indagine comparativa effettuata dallo stesso Sylos-Labini, su un teatro simile, a Perugia, è emerso che la struttura nojana ruba lo scettro di teatro più piccolo del mondo per pochi metri quadri (circa una ventina) alla struttura umbra. L’architetto ha realizzato un piano di recupero (donato al Comune di Noicattaro) per il quale è stato previsto lo stanziamento di un milione di euro (fondi regionali ed europei) che sono serviti a ristrutturare non solo la costruzione, ma anche alcuni spazi attigui, come una corte esterna che è diventata foyer.
Un grazie sentito alla nostra guida Viria Rescina per il suo racconto ricco di storia e di amore per i territorio
Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Feltrinelli, 2002. Proposto da Luciana Cusmano
di Luciana Cusmano
“Una storia di amore e di tenebra” é una narrazione autobiografica, densa delle drammatiche vicende che hanno spinto decine di migliaia di Ebrei, nei primi decenni del ‘900, ad abbandonare tanti paesi dell’Europa orientale e dei confini occidentali della Russia per cercare riparo ed un possibile futuro nella mitica terra dei Padri: la Palestina. L’estrema povertà delle loro risorse e il difficile, quasi impossibile, adattamento ad una natura dei luoghi e a consuetudini socioculturali tanto differenti, hanno prodotto nelle vite dei genitori e dei nonni dell’Autore sofferenze inestinguibili, che non hanno risparmiato neppure le generazioni di coloro che in questa terra promessa sono nati. E allora, ecco la fuga di Amos da quei ricordi, la sua nuova vita tra i forti e abbronzati pionieri dei kibbutz, pronto ad affiancarli di giorno nei duri lavori della terra e a parlare con loro di poesia e filosofia di notte, sotto una tenda, nel deserto. Ma la peculiare cultura familiare assorbita fino all’adolescenza è un richiamo ineludibile, che egli asseconderà con profondità di analisi, poesia, umanesimo molti anni dopo.
Breve nota a cura di Isa Bergaminidopo l’incontro del gruppo di lettura:
Intensi sono stati gli interventi che hanno dimostrato quanto appassionante sia stata la lettura di questo libro e quanto interesse ci sia stato per i tanti temi e le complesse problematiche che affronta. E’ stato definito un “romanzo magnifico” che raccoglie le voci di un popolo in un momento importante, in uno snodo fondante della sua storia contemporanea. La storia della nascita dello Stato di Israele si interseca con la storia personale dell’autore.
Amos Oz con la sua personalità di grande scrittore riesce a trasfigurare persone reali in personaggi con pagine di grande lucidità storico-politica a fianco a pagine di grande lirismo. Anche con una seconda lettura, quale è stata per alcune di noi, resta un libro importante e da ricordare, per i temi profondi, le riflessioni, il distacco e la coscienza critica che lo accompagna all’accostarsi ai temi della storia e della politica. E’ stata anche sottolineata la sapiente e appassionata traduzione di Elena Loewenthal.
Durante l’incontro sono stati citati questi libri:
1) Gli ebrei e le parole, Amos Oz e Fania Oz, trad. E. Loewenthal, Feltrinelli, 2015 2) L’alfabeto ebraico, Paolo De Benedetti, a cura di Gabriella Caramore, Morcelliana, 2011
Sono stati anche indicate le serie televisive:
1) “Unorthodox” miniserie di 8 episodi su Netflix
2) “Shtisel” 33 episodi per tre stagioni, in lingua originale e con i sottotitoli, su Netflix. Di questa serie se ne è parlato a: 1) Uomini e Profeti, radio 3 Rai il 24 aprile; 2) Radio 3 Mondo del 21 aprile. Tutti gli episodi si possono riascoltare sul sito di Radio 3 in podcast.
Martedi 27 aprile 2021, il gruppo di lettura si è riunito per riflessioni e comunicazioni su alcuni temi della cultura ebraica. Non si è parlato direttamente della Shoa, della tragedia che ha sconvolto l’Europa, ucciso gli ebrei e cancellato la loro memoria, ma naturalmente, è stata sempre sullo sfondo dei nostri discorsi. L’incontro si è concluso con la lettura di alcune storie dell’umorismo ebraico.
Si è fatto riferimento a diversi libri fra i quali:
Contro il fanatismo, Amos Oz, trad. E. Loewenthal, Feltrinelli, 2007
Il sonno della memoria, Barbara Spinelli, Mondadori, 2001
Gli ebrei questi sconosciuti, Elena Loewenthal, Baldini &Castoldi, 1996
Figli di Sara e Abramo, Elena Loewenthal, Frassinelli, 1995
L’ebraismo spiegato ai miei figli, Elena Loewenthal, Bompiani, 2002
Eva e le altre, Elena Loewenthal, Bompiani, 2005
L’ebreo che ride, Moni Ovadia, Einaudi, 1998
Ilconto dell’ultima cena, Moni Ovadia, Einaudi, 2010
Così giovane e già ebreo, M.A. Ouaknin, D. Rotnemer, trad. M. Ovadia, Piemme
Cosa hanno mai fatto gli ebrei? Dialogo tra nonno e nipote sull’antisemitismo, Roberto Finzi, Einaudi, 2019
Il titolo italiano ricalca il titolo inglese “Crossing”, quello finlandese era “Il cuore di Tirana”. Transizioni in italiano vuol dire: il passaggio fisico da uno stato ad un altro, il passaggio da una meta ad un’altra, le oscillazioni dell’animo umano e il percorso medico e psicologico di chi passa da un sesso ad un altro. Un titolo dunque che condensa alcuni fra i temi principali del libro.
Leggendolo scopriamo una storia dolorosa in pagine lucidissime e inquietanti, piene della rabbia di Bujar (15 anni) che si sente tradito anche dal padre quando muore e lo lascia solo, e quella di Agim (16 anni) non amato dalla sua famiglia che non accetta la sua omosessualità.
E’ un libro che racconta un ritorno, forse e comunque un particolare ritorno, ma soprattutto è un libro sull’identità, o meglio sull’impossibilità di definire e di definirsi in una identità. Nelle primissime pagine infatti si legge ”… Nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle.”.
Il tema certo non è nuovo e mi ha fatto pensare al mito e ad alcuni autori: nel mondo del mito classico, il dio Proteo che aveva il dono della profezia e che per sottrarsi alle domande di chi andava ad interrogarlo si trasformava in qualsiasi altra forma fisica; Ovidio “Le Metamorfosi”; F. Pessoa “Teoria dell’eteronimia”; J.L.Borges “Finzioni”; J. Joyce “Ulisse”; I. Calvino scrive – Il corpo significa! Grida! Contesta! Sovverte!- in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”; W. Nabokov “Il Dono” e “Invito ad una decapitazione”; J. Kafka; L. Pirandello “Uno, nessuno, centomila”; E. Carrer “Limonov”; W. Allen “Zelig”.
Molto interessanti sono le pagine di storia dell’Albania, da Skanderberg al Knun il Codice di Diritto consuetudinario albanese, che fa pensare a problematiche storiche e antropologiche del nostro Sud. Sono particolarmente coinvolgenti le pagine che raccontano gli anni dal regime di Hoxha fino al tempo dell’immigrazione in Italia e in Europa, tutto questo filtrato dalle storie umane e drammatiche dei due ragazzi Bujar e Agim. La condizione dell’emigrante è in più occasioni raccontata e denunciata con forza e rabbia.
Ha una funzione importante per la costruzione del libro, la presenza nelle sue pagine delle storie legate alla tradizione albanese, che nel loro polimorfismo la raccontano in profondità e ne costituiscono in un certo modo il peso delle tradizioni da cui Bujar è fuggito e a cui in fine ritorna. Infatti l’elemento fantastico delle storie torna nelle ultime pagine del libro, con il racconto del sogno di Bujar, che tornato a casa, dorme nella sua vecchia camera, privata di tutto, quasi il ritorno nell’utero buio delle sue origini, per una nuova rinascita? Un altro Bujar? Il finale è aperto e lascia anche aperta la discussione su molte intense pagine di questo libro.
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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura.
Della lunga e interessante discussione cercherò di sintetizzare alcune delle molte cose importanti dette. Questo giovane autore finlandese di origini kossovare è una forte voce nuova della letteratura internazionale, nelle sue pagine prende voce la rabbia di un popolo alla ricerca della sua identità, attraverso il racconto della storia dolorosa e inquietante di due giovani albanesi. Molte le problematiche che si affacciano in questo libro il cui titolo e la cui immagine di copertina sono stati particolarmente apprezzati, insieme alla qualità della traduzione.
In sintesi si è detto che “Le Transizioni” può dirsi un feroce romanzo di formazione e una metafora dell’uomo contemporaneo nel mondo della globalizzazione. La frammentazione del racconto è uno specchio della frammentazione di un mondo complesso e con una sapiente capacità narrativa, Statovci con lucido approccio storico, antropologico e culturale affronta la problematica dell’identità sia del singolo che di un’intera comunità.
In fine abbiamo chiesto a Vera un incontro dedicato al tema dell’identità. Lei, molto gentilmente, si è detta disponibile e ci incontreremo sempre su Skype martedì 26 gennaio alle ore 17,00.
Lucia ha poi raccontato quali sono state le letture che hanno accompagnato il viaggio Adirt in Albania nel 2009 e le ha inviate sulla chat di whatsapp. Le trascrivo insieme ad altre letture indicate da Roberta sempre su whatsapp, per chi volesse approfondire la conoscenza del mondo che si affaccia sull’altra sponda, per troppo tempo da noi ignorato o in passato considerato solo terra di conquista con l’occupazione nazi-fascista.
Libri indicati da Lucia: “Vergine giurata” di Elvira Dones “Chi ha riportato Dorutina” di Ismail Kadarè
Libri indicati da Roberta: “”Aprile spezzato” di Kadare (su un passato regolato dal Kanun) “Un uomo da nulla” di Kongoli (sull’Albania comunista) “Guerra d’Albania” di Fusco (documento di una guerra dal ’40 al ’43) “Dal tuo terrazzo vedo casa mia” di Malaj (racconti sui rapporti tra italiani e albanesi)
P. S. Vi invio in allegato due articoli su Pajtim Statovci, che ho trovato interessanti, entrambi scritti dal suo traduttore Nicola Rainò. Leggendoli, ho scoperto che Statovci, parlando dei suoi modelli letterari, indica Bulgakov, Toni Morrison, Isabel Allende e tra i finlandesi, parla di una ammirazione “immensa” per Olli Jalonen e soprattutto Sofi Oksanen. Qualcuna di noi ha letto questi autori finlandesi?
“Le Transizioni” del giovane Pajtim. Un grande romanzo finlandese sull’incerta identità dell’Europa. Di Nicola Rainò 14.02.2020
Pajtim Statovci è il narratore emergente nel panorama della letteratura finlandese contemporanea. Ha da poco pubblicato il suo terzo romanzo, Bolla, che gli è valso il Premio Finlandia per la letteratura del 2019, il più giovane a ricevere questo riconoscimento. Nato in Kosovo nel 1990, è cresciuto in Finlandia dove si è trasferito con la famiglia fuggita dalla guerra quando aveva due anni. Leggendo i romanzi di Statovci viene un nodo in gola. Viene da domandare, a noi stessi e non solo: ci ricordiamo degli anni ’90, appena trent’anni fa, quando le coste della Puglia vennero “invase” da migliaia e migliaia di carrozzoni del mare sgangherati, e si trattava prevalentemente di albanesi, tutti “profughi economici”, tutti “clandestini” dichiarati? Non c’erano Ong, all’epoca, ad accompagnarli nei porti. Arrivavano a grappoli sui ponti e le torrette di vascelli fantasma e si lanciavano in mare appena avvistata la costa. Una euforia di naufragi che vide gli italiani, in particolare la gente di Bari, Brindisi e Otranto, offrire un aiuto a tanti disperati che avevano negli occhi fame, di tante cose. Le storie di Pajtim Statovci partono sempre da quella terra dilaniata, il Kosovo delle sue origini, dandone un ritratto mai univoco: accanto all’indigenza estrema dei paesini dell’interno, l’avidità dei nuovi ricchi, di nuovi predoni, italiani compresi, e la voglia di tanti di lasciare un mondo in rovina, con due stracci addosso, affrontando rischi di ogni genere: il mare, i trafficanti. Sullo sfondo, storie e leggende animano gli incubi di questi uomini, riaffiorano animali mitologici dalle memorie dell’infanzia, per poi ricomparire, in forme più spaventose, anche nelle nuove patrie provvisorie, le patrie di transito. Cosa c’era dietro quegli occhi, nell’animo di un ragazzo, pronto a lanciarsi in mare senza nessuna certezza? Nei romanzi di Statovci troviamo anche questo, la definizione transitoria di un’identità difficile, forse le ragioni di quella unità europea così difficile, ma non solo per egoismo politico. Il fatto è che l’Europa si lascia alle spalle tanti vuoti, con altrettante rimozioni: come quella degli scrittori italiani contemporanei. Non mi viene in mente un solo “grande” romanzo nell’Italia dei nostri tempi che abbia avuto il coraggio di affrontare adeguatamente le tragedie di questi decenni, dall’Albania alla Libia. Di fronte a una odissea di queste dimensioni, li vediamo affollare i talk show televisivi, dicendone di ogni genere: ma perché un tema così vicino a noi italiani, di gente con cui abbiamo una faccia e una razza, non riesce a trovare una voce? Ecco, Pajtim Statovci è (anche) questa voce, e dall’interno del fenomeno ci racconta faccende sporche e inquietanti che forse ci imbarazzano, o troviamo sgradevoli. Certo non fanno salotto. Ha scritto di questo romanzo il Guardian: «Questa è l’opera di un romanziere già maturo, in una tradizione che va da Camus a Kafka, da Kadare a Kristeva. Di una bellezza brutale.»
Le Transizioni (titolo originario Tiranan sydän, “il cuore di Tirana”) è il racconto di un giovane europeo del nostro tempo: non ha certezze, è privo di ideologie, è una persona in cerca di definizione. Non ha certezze nemmeno riguardo al suo genere. Bujar dice: «sono un ragazzo di ventidue anni, che a volte si comporta come immagina facciano gli uomini », ma può essere una giovane di Sarajevo corteggiata da uomini di ogni età. Il giovane inventa continuamente se stesso e la propria storia, ruba il passato e l’identità delle persone che ha amato, e così si racconta a un amico o a una sconosciuta, nel resoconto di una vita trascorsa in viaggio e in fuga, dall’Albania all’America, passando per Roma, Madrid, Berlino, Helsinki. Perché, come dice lui stesso, «nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle». A partire dall’adolescenza poverissima a Tirana, «la discarica d’Europa, il fanalino di coda dell’Europa, la prigione a cielo aperto più grande d’Europa», Bujar narra la sua storia in prima persona. I genitori, la sorella, l’amicizia con Agim, coetaneo e vicino di casa, rifiutato dalla famiglia per il suo orientamento sessuale. Entrambi fuori luogo in un paese devastato, sempre più dipendenti l’uno dall’altro, decidono di lanciarsi verso un futuro che gli appartenga.