Diario di viaggio

CALABRIA

17 – 20 maggio 2018

 

A cura di Angela Mengano

Giovedi 17 maggio

Partenza alle 7:30.  Siamo in 28, oltre a Nicola, il nostro autista ormai diventato presenza imprescindibile nei nostri viaggi.  Pausa caffè nel versante lucano della Jonica, pausa panino verso Cosenza. Lasciata l’autostrada Salerno- Reggio allo svincolo Serre, ci addentriamo nel parco naturale omonimo, cuore montuoso della regione calabra. Nostra prima meta è la Certosa di Serra San Bruno. Luca, nostra guida per le mete di questa prima giornata, (ci dice di essere anche docente di tromba del locale Conservatorio) è ad attenderci alle porte del paese. Al termine di un breve giro nel centro abitato, che vanta belle chiese, e tra queste visitiamo l’Addolorata, e palazzi interessanti, raggiungiamo la Certosa, isolata in mezzo ai boschi, dove rova il suo habitat il maestoso abete bianco. Bruno da Colonia, fondatore dei Certosini,  giunto qui, tra la Sila e l’Aspromonte nel 1090, riferiva ai suoi amici: «Abito un eremo abbastanza lontano d’ogni parte dall’abitazione di uomini. Che cosa devo dire della sua amenità, clima e felicità o della pianura ampia e bella, distesa in lungo tra i monti, dove sono prati verdeggianti e floridi pascoli? Che cosa devo dire della veduta dei colli che da ogni parte s’innalzano dolcemente, del rifugio delle fresche valli e dell’amabile abbondanza di fiumi, ruscelli e fonti?». Oasi di pace nonché baluardo della chiesa: fu papa Urbano II, al secolo Oddone di Lagery, a fare del santo d’Oltralpe suo strumento per la latinizzazione dei riti – perseguita con l’aiuto dei Normanni per soppiantare una cultura, quella greco – bizantina, fino allora fortemente radicata in queste zone. Nel Museo annesso, unica parte visitabile, si può avere solo una pallida idea di quello che dovette essere nei primi secoli dalla sua fondazione, centro di irradiazione di arte e cultura, dove convenivano scalpellini e artigiani di valore, maestranze locali e napoletane. Intorno alla Certosa – che oggi ospita una quindicina di monaci – sono fiorite leggende, persino Leonardo Sciascia ipotizzò che il fisico Ettore Majorana, scomparso nel 1938, vi si fosse nascosto per sfuggire al mondo, e forse anche per sottrarsi al peso terribile di dover far parte del gruppo di scienziati che avrebbe messo a punto la bomba atomica.             Ripresa la strada (lasciando in zona, perchè non si può vedere tutto, un sito di archeologia industriale, la Ferriera Ferdinandea di Mongiana, e la tenuta boschiva sede di produzione della Mangiatorella , acqua minerale molto diffusa non solo in Calabria), ecco la magnifica Cattolica di Stilo, greco-bizantina, in alto, con il borgo che si distende ai suoi piedi. La sosta si prolunga e ne approfittiamo per accaparrarci souvenir calabresi a base di bergamotto. La statua di Tommaso Campanella nella piazzetta del paese ci ricorda che qui ebbe i natali l’illustre filosofo, anticipatore del pensiero moderno. Poi l’approdo all’ Hotel Kennedy di Roccella Jonica che ci accoglie in modo squisito, con un’ottima cena, finalmente possiamo rilassarci sorseggiando il vino di Roccella, l’Anfisya, nonostante una comitiva numerosa e rumorosa a noi contigua ci renda difficoltosa la conversazione. Molto gentilmente lo staff ci viene incontro mettendoci a disposizione una saletta appartata dove possiamo tanquillamente concludere la nostra serata scambiandoci le impressioni del primo giorno di viaggio in Calabria

Venerdi 18 maggio

Mentre andiamo verso Locri leggo, nelle pagine di cronaca di un giornale locale, la recensione di un libro da poco dato alle stampe, La maligredi: L’autore è Gioacchino Criaco e racconta la sua Calabria, anzi una pagina di storia sconosciuta, il ’68 in Aspromonte e i suoi straordinari protagonisti. Davanti al Museo Archeologico di Locri incontriamo Daniela Strippoli, la nostra guida, che dopo una breve introduzione storica ci conduce all’interno dell’area archeologica di Locri Epizefiri. Ricordo di avere visitato un piccolo Antiquarium molti anni fa, oggi questo Museo espone reperti di eccezionale bellezza, come i Pinakes in terracotta raffiguranti scene relative al mito di Persefone; ignoravo anche che da quest’area, e precisamente dal tempio di Afrodite in contrada Marasà, proviene il celeberrimo Trono Ludovisi oggi nei musei di palazzo Altemps a Roma.

Da Locri a Gerace. Il divertente trenino della signora Giovanna ci risparmia la fatica di scarpinare fino alla parte alta del borgo medievale, affacciato su un ampio panorama, entrato nel club esclusivo dei borghi più belli d’Italia. Nella piazza delle tre chiese visitiamo San Francesco. All’esterno il maestoso portale gotico con motivi di matrice islamica sasanide,  all’ interno il fastoso altare barocco in marmo policromo (interessanti le formelle raffiguranti la chiesa  e lo sparviero –  in greco ierax – che secondo la leggenda avrebbe guidato i locresi,  inseguiti dai saraceni,  verso la rocca di Gerace, donde il nome dato alla città); infine il sarcofago di Nicola Ruffo di Calabria, opera di  botteghe napoletane di età angioina molto simile ai monumenti napoletani di Tino da Camaino.  Le altre due chiese affacciantesi nella piazza sono al momento chiuse, ma Daniela ci precisa che San Giovannello fu forse in antico una sinagoga, e qui fiorì una colonia ebraica tra le più importanti in terra calabra. Merita una visita approfondita l’antica e maestosa Cattedrale, prima bizantina poi normanna. Dalla cripta (che ospita anche un piccolo museo-reliquiario, con pezzi notevoli, come il  busto settecentesco in argento di Santa Veneranda) e che ha  colonne tutte diverse una dall’altra,  in porfido, o color rosa, o scanalate etc., si passa al livello superiore, con le tre ampie navate divise da due file di colonne, le cappelle, i bassorilievi, i sarcofaghi, la cupola con le trombe d’angolo a pennacchi (secondo un’ antica tradizione armena) , e tra l’altro un’opera ad altorilievo cinquecentesco, della quale Daniela, la nostra guida,  dà una sua lettura personale cogliendo alcune incongruenze che la portano a dubitare dell’ attribuzione ad  Antonello Gagini scultore  proposta da alcuni studiosi. Dopo la sosta pranzo al Caffè della Cattedrale (una piadina vegetariana e una gustosa granita al bergamotto) riprende il nostro giro tra le stradine del borgo, con soste ammirate negli angoli più suggestivi e un incontro con un milanese che si è innamorato di questo luogo decidendo di venirci a vivere.

Scendiamo con il pulmann a rotta di collo verso la statale jonica, per evitare a Daniela di perdere il treno che la riporterà a casa. A Brancaleone Carmine Verduci ci porta alla casa in cui il regime fascista confinò Cesare Pavese nell’agosto del 1935; arriva alla stazione con due carabinieri, condannato a tre anni di confino ma due anni gli vengono condonati. La sua stanzetta è come se l’avesse lasciata poco tempo fa; il cortile, il giardino, al di là la ferrovia, poi il mare, da lui considerato la quarta parete del carcere. “Del mare ho fatto la mia sputacchiera” scrive ad Augusto Monti suo professore al Liceo D’Azeglio. Nelle lettere alla sorella scrive”la gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca”; tiene ai giovani lezioni di latino e greco; qui inizia a scrivere il suo diario 1935-1950, Il mestiere di vivere. Nella chiacchierata che conclude la nostra visita scopriamo  che a Brancaleone alcune persone illuminate insieme a Carmine e  ai privati che hanno comprato la casa di Pavese, progettano e producono eventi e  iniziative di valorizzazione (le giornate pavesiane, un parco letterario allo stato embrionale, la biblioteca comunale intitolata a Pavese etc.) mantenendo contatti con la fondazione Cesare Pavese di Santo Stefano Belbo.

Da stasera saremo per due notti all’ Hotel Altalia di Brancaleone. La cena ci riserva un invitante risotto al profumo di bergamotto e ottimo pesce.

Sabato 19 maggio

Noemi Evoli, guida ufficiale del Parco d’Aspromonte, resterà con noi oggi e domani e fino al termine del nostro viaggio nella Calabria greca. Oggi siamo in Bovesia, la Calabria grecanica, e Bova ne è la capitale. Poco lontano da qui, a Bova Marina, il ritrovamento di resti della sinagoga più antica in Occidente, dopo quella di Ostia antica, ha portato a nuove ipotesi sulla presenza ebraica in Calabria. Noemi ci illustra storia, tradizioni e feste popolari, (le Pupazze della Domenica delle Palme a Bova, la Varia a Palmi e tanto altro).  Il giro del paese parte da piazza Roma, su cui si fronteggiano palazzo Nesci e palazzo Marzano, appartenenti a due famiglie rivali (del primo, in pietra di colore rossiccio, si favoleggia fosse stato eretto con malta impastata col vino; il secondo ospita oggigiorno la sede del Municipio). Lungo il percorso ci imbattiamo in un affascinante museo della civiltà contadina a cielo aperto, ideato e realizzato da un imprenditore nativo di Bova, Saverio Micheletta, tornato nel paese d’ origine per promuoverne la valorizzazione. Poco più oltre, sulla soglia della piccola chiesa dello Spirito Santo ci accoglie con vivace comunicativa un diacono, che si definisce birituale latino e greco-bizantino (come a Chevetogne). Padre di nove figli (più tre in affido), discorrendo con noi ci racconta la storia di San Leo, che si fece monaco basiliano, e che nel santuario a lui dedicato è raffigurato con la scure di boscaiolo e con la pece che estraeva dagli alberi e che   miracolosamente si trasformava in pane per i poveri. Pian piano poi si sale al Santuario di San Leo (dall’alto ammiriamo il panorama incantevole), santo venerato sia qui sia ad Africo, che ne fa il suo patrono insieme a Bova e ne condivide le reliquie. Ma Africo – argomenta Noemi – è forse il più abbandonato e isolato paese di Aspromonte (si pensi ai collegamenti tradizionalmente assicurati da mulattiere); isolamento che però, in generale, ha contribuito alla sopravvivenza della cultura greca.  Oggi, grazie a associazionismo e volontariato, le comunità sono riuscite a riprendersi. Un episodio significativo: il preside Minuto sente gli alunni parlottare greco, subito però azzittiscono come se fosse una vergogna da nascondere. La completa latinizzazione, con la fine del rito greco, si fa generalmente risalire al 1571. La Cattedrale, nel punto più alto del paese, e collegata con la punta rocciosa su cui sorgeva l’antico castello, era originariamente di impianto normanno, ma appare  ricostruita in epoca recente, avendo subito  terremoti devastanti.

Al momento di salire sul pulmann, il sindaco, Santo Casile, si congeda da noi così: Fate cose buone e andate in pace. Ma la bellissima Bova ci riserva ancora uno dei piatti forti del nostro viaggio, dedicato alle lingue minoritarie: il museo della lingua greco-calabra Gerhard Rohlfs. Di lui ormai già in età avanzata mi resta un ricordo molto nitido, negli anni precedenti al mio trasferimento da Brindisi a Bari, nei frequenti incontri in cui l’illustre studioso veniva invitato (di qua e di là, molto spesso alla biblioteca De Leo) a conferire sui suoi studi, offrendo all’uditorio gemme di sapienza e di semplice e cordiale umanità. E’ bello ritrovare in questo piccolo ma ricco e documentato museo le tracce del lavoro immenso di questo tedesco che si spinse attraverso lo studio dei dialetti molto più avanti di tanti italiani nell’analisi delle più remote fonti culturali del nostro Meridione. Tanto da intrecciare con la gente di questi luoghi profondi legami di amicizia! Qui ritroviamo tutto il lessico di antichi costumi e tradizioni popolari (immancabili pupazze, musulupa e simili) e per finire le splendide fotografie scattate dallo stesso Rohlfs nei suoi goethiani viaggi in Italia, dove alle figure femminili si sostituiscono   uomini travestiti con l’intento di preservare le donne di famiglia dall’esposizione (peccaminosa!) in pubblico.

Del pranzo grecanico della Cooperativa San Leo, tutto buonissimo e genuino, e condito da un’atmosfera indimenticabile di ospitalità e accoglienza, ricorderò la lestopitta, sorta di frittella fatta con un impasto semplice a base di acqua e farina, che piace a tutti. Ci facciamo dare la ricetta per rifarla a casa ma i risultati, chissà….

Mentre la strada si inerpica verso Pentedattilo, Noemi ci racconta del suo impegno di lotta nel movimento No Carbone per opporsi alla costruzione di una centrale a carbone nel territorio della provincia di Reggio Calabria.  Pentedattilo, appollaiata sulla roccia, è una mano ciclopica dalle cinque dita. Ne scriveva così Edward Lear, in Diario di un viaggio a piedi: La visione è così magica che compensa di ogni fatica sopportata per raggiungerla .. selvagge e aride guglie di pietra lanciate nell’aria in forma di una gigantesca mano contro il cielo…mentre l’oscurità e il terrore gravano su tutto l’abisso circostante. Dal terremoto del 1783 in poi è stata progressivamente abbandonata, ma oggi, riscoperta da giovani e associazioni, Pentedattilo va conoscendo una nuova giovinezza grazie anche al contributo di volontari provenienti da tutta Europa. Non è un caso che per le sue stradine ci imbattiamo ben presto in una simpatica signora francese che qui si è trovata una casa ed è seriamente intenzionata a venirci a vivere. Noemi ci impartisce pillole di storia (importante centro greco-romano in posizione strategica. dominazione bizantina. poi normanna poi le baronie la strage degli Alberti etc..) e noi ci muoviamo tra le piccole botteghe artigiane, che espongono i caratteristici tessuti fatti con la comune ginestra (e non con la ginestra dei carbonai), la chiesetta dei santi Pietro e Paolo, il bar dove ci offrono, senza nulla chiedere in cambio, un goccio di Kephas (digestivo a base di alloro, liquirizia e finocchietto).

Stasera, dopo cena, il programmato incontro con Carmine Verduci e Sebastiano Stranges, studioso di civiltà armena, con proiezione di filmati sul territorio della Calabria greca.

Domenica 20 maggio

Lasciata Brancaleone (che tra le sue attrazioni comprende il centro di recupero e nidificazione delle tartarughe marine), riprendiamo la strada costiera, ripassando sotto il faro di Capo Spartivento, tra un susseguirsi di filari di alberi di bergamotto, per poi inoltrarci nell’interno tra le foreste dell’Aspromonte. C’è un po’ di foschia, sì da intravedere appena il profilo dell’Etna. L’ultima meta in terra calabra è il Cippo Garibaldi a Gambarie, che ricorda l’episodio successivo alla spedizione dei Mille (1862) quando Garibaldi, nell’intento di raggiungere Roma con un manipolo di volontari (al grido di O Roma o Morte), nello scontro con le truppe piemontesi viene ferito in Aspromonte (e sembra che i medici garibaldini con grande perizia gli abbiano salvato la gamba). Oltre che il mausoleo (nel complesso assai poco interessante) osserviamo anche a distanza ravvicinata il pino larice dove l’eroe dei due mondi venne adagiato; albero che si presenta con un profondo incavo, probabilmente fatto per la raccolta della pece anticamente usata come combustibile.

E, dulcis in fundo, il pranzo nel ristorante Bucaneve a Gambarie, prima di riprendere la strada del ritorno.

* Vecchia Calabria (Norman Douglas)

* Recherche (docu Calabria presentato a Cannes

* Edward Lear, Diario di un viaggio a piedi