Viaggio d’Autunno. Livorno e Pisa 

27 novembre – 1 dicembre 2018

 a cura di Angela Mengano

La partenza – come sempre modulata tra largo Sorrentino e largo Due Giugno- è fissata tra le 7.00 e le 7.10 di martedì 27 novembre, in modo da arrivare in tempo utile a Santa Severa (RM) per la visita del Castello.

Sosta in autostrada nei pressi di Avellino per permettere lo scambio tra i due autisti. Superato il GRA e imboccata la strada per Civitavecchia raggiungiamo il Castello di Santa Severa, dove ci attende la nostra guida, Sara. Ed ecco l’imponente mole del castello, testimone di storia plurimillenaria. Fu in età etrusca l’antica Pyrgi, porto di Caere (odierna Cerveteri), porto “emporico”, luogo strategico di scambi e contatti tra diverse culture, poi colonia romana, in seguito borgo medievale dominato dal castello e intitolato alla martire protocristiana Severa. L’ordine Ospedaliero di Santo Spirito (caratteristico e onnipresente nel sito lo stemma a doppia croce biansata) ne fu proprietario per secoli. Attraverso i due archi, certamente costruiti per accogliere ed onorare papi e personalità di prestigio, si passa nella piazza della Rocca. Il castello (facente parte di un sistema difensivo iniziato da papa Leone IV contro il pericolo saraceno) non è visitabile, ma sono molto interessanti gli scavi che nella Casa del Nostromo, attraverso lastre trasparenti, lasciano intravedere, più in basso del piano di calpestio, alcuni sarcofaghi. In un altro lato della piazza sono visibili i resti di una Basilica paleocristiana edificata due secoli dopo la morte di Severa. Begli affreschi (scuola del pittore Antoniazzo Romano) nel Battistero (Santa Severa presenta il committente Gabriele de Salis alla Madonna in trono), e la scena di ritorno in porto con apparizione miracolosa di santi; particolarmente suggestivi i misteriosi graffiti votivi che raffigurano profili di navi del XIV e XV secolo, piccolo archivio di iconografia navale. Nella Chiesa parrocchiale dell’Assunta, tra due colonne in marmo cipollino, il grande quadro con l’Assunta tra le Sante Marinella e Severa (con il castello ben visibile sullo sfondo). Nel “cortile delle Barrozze”, area per stipare il grano, la guida Sara sottolinea che questo non è mai stato un castello di “principi e raperonzoli” ma di preti e contadini! Completiamo la visita con il Museo del Mare e della Navigazione antica e con l’Antiquarium, nel quale spiccano le tre tavolette auree di Pyrgi (qui solo riprodotte, mentre gli originali sono conservati al museo etrusco romano di Villa Giulia).

Qualche ora di viaggio e siamo a Livorno, nel magnifico Grand Hotel Palazzo, dalle cui   finestre, affacciate sul lungomare, si può scorgere l’isola Gorgona e, proprio di fronte all’albergo, la Terrazza Mascagni e i Bagni Pancaldi, residuo di Belle époque. Una buona cena con risotto alla marinara, insalatina di calamari e tartellette alla frutta conclude in bellezza la prima giornata del nostro andare.

Mercoledi 28 novembre

L’appuntamento con Fabrizio Ottone, nostro “Virgilio” nella scoperta di Livorno (verve e cultura, personalità notevole, è il presidente dell’Associazione Guide Labroniche), è in piazza del Luogo Pio, dove i livornesi si danno appuntamento semplicemente dicendosi Ci vediamo a Crocetta, dal nome familiarmente dato alla piazza. Da qui inizia il giro in battello attraverso i canali del quartiere Venezia (i cd. Fossi medicei), lungo un perimetro che – scopriremo presto – ha la forma di un pentagono. E’ il cuore di una città che il grande Bernardo Buontalenti progetta con un sistema di fossati e bastioni, ripopolata con l’ emanazione delle leggi livornine, con cui si invitavano nella nuova città mercanti di qualsivoglia Nazione, Levantini, Ponentini, Spagnuoli, Portughesi, Greci, Todeschi et Italiani, Hebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani et altri, e richiamando mercanti da ogni angolo del mondo, con l’espansione dei commerci e il soggiorno di numerose comunità straniere, le cd Nazioni,  favorirono la fioritura delle arti e delle lettere insieme a un clima di tolleranza religiosa davvero speciale, almeno fino all’ Unità d’ Italia. Fu così che Livorno si trovò ad avere una delle comunità ebraiche più importanti, unica città senza ghetto (da ricordare, tra gli ebrei livornesi illustri, Amedeo Modigliani ed Elio Toaff). A spasso per i canali, rallegrati da un  bel  cielo azzurro, ci godiamo la sfilata  di palazzi, mura fortificate, cantine, costruendoci una nostra idea della città attraverso le parole di  Fabrizio: l’intervento di esperti chiamati da Venezia per costruire una città sull’acqua; il cantiere dei fratelli Orlando produttori di corazzate ormai ridotto a  rudere e rimpiazzato da un  cantiere che produce yacht di lusso; il faro, che qui viene detto “Fanale”, costruito nel XIV secolo dalla Repubblica di Pisa, distrutto dai tedeschi in ritirata alla fine della seconda guerra mondiale; la Fortezza Vecchia, che Cosimo I de Medici elesse a  propria residenza quando si recava a Livorno; il monumento ai Quattro Mori, simbolo della città; il passaggio nel tunnel sottostante alla enorme piazza della Repubblica, detta del Voltone perchè in realtà copre con una grande volta le acque del Fosso Reale che da sopra  si vedono  scorrere attraverso grate;  il quartiere Ovosodo, che il regista Paolo  Virzì ha fatto conoscere al pubblico;  la burla  delle false teste di Modigliani ripescate nei canali;  la storica rivalità tra Livorno e Pisa (nata da quando la seconda decadde al sorgere e affermarsi della prima).

Ritornando sui nostri passi, visitiamo la Chiesa di san Ferdinando, uno dei tre gioielli barocchi della città: facciata povera ma interno fastoso, alla maniera del barocco toscano, più vicino a quello romano, non abbastanza ardito ma oggi rivalutato. Sull’altare non un Cristo ma un Angelo – unica figura comune ai tre monoteismi – nell’atto di  liberare due schiavi uno cristiano  e uno moro;  pavimento policromo di marmi toscani in forma radiale. La chiesa sorge in piazza del Luogo Pio, occasione per Fabrizio di citarci il detto popolare “Le ragazze del Luogo Pio mangiano pregano e pensano a Dio” collegato alla originaria destinazione del luogo ad assistenza delle fanciulle povere. Percorrendo la cosmopolita via della Madonna, singolare per la presenza di ben tre chiese punto di riferimento delle varie  comunità nazionali, arriviamo al Mercato delle Vettovaglie (quasi di fronte, in piazza delle Erbe, è la casa di Pietro Mascagni; suo padre aveva una panetteria, una delle più rinomate della città). Il Mercato, grande edificio in stile Liberty, ha tre sale, la prima chiamata pagoda, dove viene battuta l’asta del pesce,  l’altra per verdure , uova e pollame, e la centrale, sulle cui pareti fanno bella mostra di sé le cariatidi di Lorenzo Gori, raffiguranti le “gabbriciane”, contadine che dal Gabbro (luogo natale della cantante Nada, ma anche legato alle vicende artistiche di uno dei Macchiaioli più rinomati come Silvestro Lega) portavano  i prodotti del territorio da vendere in città. Qui Fabrizio ci dà lezioni (etimologia compresa) di cacciucco e ponce, specialità livornesi. A Livorno dicono: Siamo un cacciucco di gente. Del primo faremo esperienza nella cena di domani sera, per il secondo l’occasione arriva subito, nella pausa pranzo, tra i banchi del mercato, gustando un buon primo caldo con l’accompagnamento di un calice di vino e – appunto – di un consolatorio ponce.

Lentamente ritorniamo sui nostri passi verso l’autobus. Sosta doverosa davanti alla  facciata  del Teatro San Marco, che ospitò nel 1921 il congresso costitutivo del Partito Comunista d’Italia. Tristi riflessioni sulle ininterrotte pulsioni scissionistiche della sinistra. Oggi è un rudere, in parte restaurato per ospitare un asilo e non so che altro.  Ore 15.00.  Siamo in partenza per l’escursione del pomeriggio al Santuario di Montenero. Percorriamo il lungomare sud punteggiato di edifici e “bagni”  ottocenteschi fino a imboccare la strada che sale verso il santuario.  A mezza costa appare, sulla destra,  una specie di enorme cubo di cemento: il faraonico mausoleo della famiglia Ciano, ci viene spiegato, che avrebbe dovuto dominare Livorno dal colle Monteburrone, ma che non fu mai portato a termine. Montenero è oggi la Beverly Hills dei livornesi (di  quassù, se l’aria è tersa, lo sguardo spazia fino alla Torre di Pisa e  alle  Apuane) ma nel medioevo era zona di eremiti e come  spesso avviene in questi casi, l’origine del santuario è ammantata di leggende che riportano il ritrovamento da parte di  un pastorello di un dipinto raffigurante la Madonna;  portato sul  colle poi nascosto in circostanze misteriose, forse rifiutato in quanto non canonico dalle autorità religiose pisane ed infine messo trionfalmente al centro della edificazione del santuario. Una cosa è certa però: per i livornesi oggi, anche se atei, la Madonna di Montenero non si tocca. Anche perchè nel frattempo è stata insignita – da cinquant’anni a questa parte –  del titolo di patrona dell’intera regione toscana, nonché  copatrona della città di Livorno insieme a  santa Giulia. E a Livorno se si è scampati a un serio pericolo si suole dire: Devi andare a piedi a Montenero ad accendere un cero alla Madonna. In ogni caso, a parte la devozione, il luogo merita, per il Famedio (dove è sepolto il pittore Giovanni Fattori e dove vengono ricordati, tra gli altri, Amedeo Modigliani e Pietro Mascagni) e soprattutto per la straordinaria e sterminata raccolta di ex-voto (circa un migliaio) a partire  dal ‘700. Nell’altare principale della chiesa – altro esempio importante del  barocco toscano – è  il dipinto originale della madonna di Montenero. Vecchi santini risalenti ad anni anteriori al furto degli anni ’70 la raffigurano riccamente ingioiellata. Prima di cena, piccola riunione allargata del gruppo di lettura, nel saloncino della reception, per discutere e votare i libri del mese di Fahrehneit.

Stasera non ceniamo in albergo, ma in un locale in zona porto, Le volte, con un insolito allestimento fatto di ombrelli multicolori e, naturalmente, un profluvio di sapori marinari. Buona la frittella di bianchetti,  ottimo il fritto di calamari e gamberi reso leggerissimo dall’impanatura in farina di riso.

Giovedi 29 novembre

Dopo colazione, Villa Mimbelli che, a due passi dal nostro albergo, ospita il museo civico Giovanni Fattori . Ci affascina non solo per  il contenuto (i Macchiaioli – secondo Giulio Cesare Argan “il  movimento artistico italiano più impegnato e costruttivo dell’Ottocento) ma anche per  il contenitore (villa con grande parco e orto botanico), espressione del gusto di un ricco mercante di origine dalmata. Stile eclettico usato nelle sale e salette per stupire mescolando vari stili; interessanti dettagli nelle lunette affrescate da Annibale Gatti: puttini con oggetti tecnologici – macchina fotografica, locomotiva, pila voltaica; sala biliardo con intarsi legno-madreperla, genere medioevo ottocentesco centroeuropeo un po’ celtico un po’ fantasy; sala da fumo o Moresca, di gusto parossisticamente orientale. Qui è evidente – uso le parole di Fabrizio – il gusto non innovativo dei proprietari: coevo dei Macchiaioli, il Gatti dei soffitti affrescati con soggetti classici e mitologici  – pur bellissimi a vedersi – fa arte accademica, ponendosi a una distanza abissale da quella corrente artistica che entra in scena  rompendo gli schemi. ”I Macchiaioli (cito Fabrizio) assestano un colpo a questa visione dell’arte”.  Una scala decorata con putti di ceramica invetriata ci porta al piano superiore, dove sono ancora altre sale (gli appartamenti privati dei Mimbelli) tra cui spicca la Sala Grande, tutta un gioco di vetri e specchi. Al secondo piano c’è la magnifica collezione dei Macchiaioli. Diego Martelli – a cui Edgar Degas  dedicò ben due ritratti – è l’anima intellettuale del gruppo.  Loro ritraggono la realtà, la realtà è luce,  e la luce va a macchie, contrasti, rapporti. Basta putti, e decamerone, e scene mitologiche… E’ una rivoluzione culturale come nel ’68, un momento di passaggio anche per l’arte, che prima  si riproduceva su commissione, ora cerca un mercato. Il nome di “macchiaioli” glielo appioppa un giornalista con intento di stroncatura, loro se lo tengono facendone un punto di forza. Ognuno di loro sviluppa un suo linguaggio. Giovanni Fattori prima di tutto, qui ci sono i suoi grandi quadri con le scene di guerra nel Risorgimento: sembra il cinema di Sergio Leone, Ino ci va a nozze, lui che si esprime col segno pittorico  improvvisa per noi un commento critico a supporto delle spiegazioni di Fabrizio; e poi ci sono le Mandrie Maremmane con i butteri , i “cowboy italiani”, dove paesaggio e figura umana sono sullo stesso piano; fino alle tele più piccole, per le quali Fattori utilizza le scatole dei suoi sigari toscani.   C’é poi Silvestro Lega che con la sua pittura – dice Fabrizio – “dà nobiltà non retorica alle contadine” (ma i suoi quadri forse più belli, certamente più noti, Il pergolato e Il  canto dello stornello, non sono qui). C’è Angiolo Tommasi, con il ritratto di Pietro Mascagni; c’é (mi ha molto colpito) Vittorio Corcos, osservatore acuto della belle époque, autore di intensi ritratti, notevoli quelli femminili  e anche quelli ironici  di personaggi livornesi come “Yorik” (1889) raffigurante quel Pietro Coccoluto Ferrigni che fu avvocato, giornalista, prese parte alla spedizione dei Mille e fu perfino segretario di Garibaldi, secondo Fabrizio portatore di quella vivacità tutta livornese che ha dato in seguito vari frutti, non escluso  il famigerato Vernacoliere.  Tra i post- macchiaioli, Plinio Lomellini con il suo Incipit nova aetas, monumentale quadro raffigurante l’arrivo delle camicie nere in piazza Signoria a Firenze;  Mario Puccini, (Emilio Cecchi lo definì “un  Van Gogh involontario”), figlio di un fornaio, personaggio eccentrico e tormentato. Infine, l’unica opera di Amedeo Modigliani 14enne conservata in questo Museo, rappresentante una stradina toscana.

Foto di gruppo alla Terrazza Mascagni; e qui, salutato Fabrizio, nostro impareggiabile cicerone, ci sparpagliamo a gruppetti per un veloce spuntino ai Baracchini.

Oggi pomeriggio incomincia l’esplorazione di Pisa, che continuerà per l’intera giornata di domani. In un viaggio che puntava sulla scoperta/approfondimento delle due città toscane, Livorno e Pisa, abbiamo volutamente scelto di pernottare nella prima, considerandola un pò meno turistica dell’altra.  Ce ne viene conferma  dal primo impatto con la Piazza dei Miracoli, letteralmente invasa da turbe di turisti impegnati a farsi fotografare nell’atto di reggere con le proprie braccia la mole della Torre pendente…ma noi – guidati da Luca –  attraversiamo velocemente la zona, che vedremo meglio  domani, per recarci nella bella Piazza dei Cavalieri,  ridisegnata dal Vasari. Avevamo appuntamento nel vasariano palazzo della Carovana o dei Cavalieri, sede della Scuola Normale Superiore di Pisa, ma scopriamo con disappunto che i vari  ambienti – sale, biblioteca – sono momentaneamente interdetti al pubblico per impegni non resi noti al momento della prenotazione. Possiamo dare  solo uno sguardo allo scalone, da dove sbirciare velocemente all’interno delle sale. Peccato, sapevo che nella sala degli stemmi c’è anche, fra  tanti, lo stemma degli antenati aretini di mia madre, cavalieri di santo Stefano impegnati con la flotta granducale a difendere le coste da minacce piratesche e saracene!  Mi consolo pensando che anche una visita affrettata può avere un senso, quello di  un doveroso omaggio a una scuola universitaria che conferisce all’Italia prestigio internazionale e che ha dato al nostro paese personalità illustri in tutte le discipline scientifiche e umanistiche (vari Nobel sono usciti da qui). Prima di salutare Pisa facciamo una confortevole sosta nel bar pasticceria Salza in Borgo Stretto.  Ci attende stasera una cena con i fiocchi, con la scoperta del Cacciucco verace, in un delizioso locale – Porto di Mare – gestito da giovani altrettanto deliziosi (ma pare con una mamma- cuoca di alto livello in cucina)  e con un susseguirsi dal principio alla fine di bocconi prelibati. A conclusione della serata, sosta di gruppo – tanto per cambiare tutte donne –  in un localino scoperto da Lucia,  alquanto alternativo,  attiguo al nostro albergo, che ci ha permesso, tra un infuso e una grappa a seconda dei gusti, di  sbizzarrirci allegramente con musiche e canti.

Venerdi 30 novembre

In viaggio verso Pisa, Lucia ci legge qualche pagina del gradevolissimo Scacco alla torre di Marco Malvaldi, ovvero un modo alternativo di avvicinarsi alla città della torre pendente. La nostra guida, solo per stamattina, sarà Eloisa. Dal grande parcheggio periferico un trenino ci porta sino alle mura, che in questo tratto includono il Cimitero ebraico, con  tracce di epigrafi in caratteri ebraici sul muro esterno.

In Duomo, capolavoro del romanico pisano che accoglie influenze orientali e islamiche, ammiriamo  il magnifico  pulpito di Giovanni Pisano e il Cristo Pantocratore che Cimabue lasciò incompiuto. Fu qui che secondo cronache del tempo Galileo, vedendo una lampada oscillare, scoprì la legge del pendolo; ma  si ritiene che  la  lampada il cui moto egli osservò sia quella che si trova in una cappella all’interno del Camposanto monumentale, che vedremo più tardi. Passando nella cappella che conserva  le reliquie di san Ranieri patrono della città di Pisa, Eloisa ci ricorda la tradizione legata alla festa del Santo, e il miracolo del vento che, dopo essersi scatenato, cala, permettendo l’accensione di migliaia di lumini che rivestono a festa la città nella sera della vigilia, il 17 giugno di ogni anno.

Il Battistero, un tripudio di ricami marmorei all’esterno, è semplice e spoglio al suo interno e ha un’acustica perfetta, dimostrata al pubblico da una voce che esegue dei vocalizzi con intonazione cristallina,  e poiché noi mostriamo di aver molto apprezzato, la performance viene ripetuta espressamente per noi, con grande nostro compiacimento! Il bellissimo pulpito è di Nicola Pisano, considerato un precursore del Rinascimento (si dice che Michelangelo abbia copiato il suo Davide dall’Ercole nudo di questo pulpito). Prima di lasciare il Battistero, qualcuno di noi sale all’ultimo piano, da dove si ha  la sensazione di poter quasi arrivare con la punta delle dita a toccare il Duomo che è proprio lì di fronte!

L’ultimo dei monumenti – veramente spettacolari – di questa piazza (il nome di piazza dei Miracoli pare sia stato coniato da Gabriele d’Annunzio)  è lo stupendo Camposanto monumentale, vero e proprio Pantheon della Pisa di tutti i tempi, con il grandioso e impressionante Trionfo della Morte di Buonamico Buffalmacco (1330, il Vasari argutamente lo definì “fumettista”); la grande collezione di sarcofaghi romani; le sinopie (la maggior parte trasferite nel vicino museo); la grande e interessante Cosmografia teologica di Piero di Puccio, fatta di numerosi cerchi concentrici che alludono alla Terra, alle sfere celesti, agli elementi e ai pianeti; e, infine, la lampada di Galileo originale trasferita qui dal Duomo.

Con un ultimo sguardo alla Torre, adesso un po’ meno pendente che in passato grazie a importanti lavori di consolidamento, lasciamo frettolosamente la piazza dei Miracoli e ci disperdiamo nelle vicinanze per una veloce pausa pranzo. Poi riprendiamo il giro con Luca, che ci mostra le case-torri, protese in senso verticale, come veri grattacieli del Medioevo, emblema di ricchezza e potenza delle famiglie nobili. Lungo il tragitto passiamo davanti alla storica sede dell’Università di Pisa, il Palazzo della Sapienza, dove Galileo Galilei fu studente e in seguito per tre anni docente di Matematica prima di trasferirsi a Padova. Da piazza Garibaldi attraversando l’Arno raggiungiamo Palazzo Blu, raffinata dimora storica con belle sale sontuosamente arredate – tra cui spicca la grande Sala da Ballo -sede di mostre temporanee (al momento “da Magritte a Duchamp” – 1929 il grande surrealismo dal Centre Pompidou) ma anche di una collezione permanente di arte pisana e toscana di tutto rispetto. La facciata è dipinta con la caratteristica colorazione blu o color dell’aria applicata ai palazzi pietroburghesi (manco a dirlo da architetti italiani) per addolcirne le forme, e da ciò proviene il nome di palazzo Blu dato al palazzo Giuli Rosselmini Gualandi. In mezzo a tanti capolavori, per me meritano di essere ricordati il comò francese, nero e oro, che aperto ricrea l’aspetto di un teatro (il che la dice lunga sulle raffinatezze e frivolezze nel gusto di un’epoca); le bellissime ceramiche, tra cui uno straordinario vaso di Gio Ponti; il ritratto di Artemisia Gentileschi, opera messa al centro di una recente mostra sulla produzione pittorica dell’artista, che raffigura sé stessa nelle fattezze di Clio musa della Storia.

Tornando a Livorno ci trasferiamo all’hotel Granduca per l’ultima notte, perchè il Grand Hotel Palazzo é al completo per l’arrivo da ogni parte d’Italia dei familiari dei cadetti dell’Accademia Militare,  qui convenuti per la cerimonia del giuramento fissata per  domani. Questo, meno grandioso dell’altro ma centralissimo e accogliente, ha anche un ottimo ristorante. Non può mancare stasera, per chiudere in gloria, e per consolidare la memoria gastronomica del luogo, un “calamaro cacciuccato”, seguito da uno squisito gelato accompagnato da una salsa calda di fichi. Si conclude la serata facendo salotto per comunicarci  le impressioni della giornata.

Sabato 1 dicembre

E’ l’ultimo giorno di viaggio, dedicato – sulla via del ritorno – a Cerveteri e alla civiltà etrusca. In partenza da Livorno vediamo il lungomare Sud festosamente invaso dalla gente venuta per il giuramento di fedeltà alla Patria dei cadetti.  A Cerveteri  ritroviamo Sara, che nel viaggio di andata  ci ha fatto conoscere il castello di Santa Severa.  Entriamo con lei nel duecentesco Castello dei Ruspoli sede del museo archeologico nazionale cerite, che ospita straordinarie testimonianze della civiltà etrusca: corredi  funerari con bronzi, buccheri, urne dalla tipica forma biconica; urna cineraria fittile rappresentante una coppia di sposi che ricorda in miniatura il sarcofago conservato a Roma nel museo di Villa Giulia, e tanto altro; ma soprattutto il Cratere e il Kylix di Eufronio, stupendi  pezzi di ceramica attica a figure rosse del V secolo a.C., illegalmente  portati all’estero, esposti l’uno al Metropolitan  di New York e l’altro al Getty  di Malibu, finalmente  rientrati in Italia, ora tornati definitivamente al luogo di appartenenza, dopo essere stati esposti per anni al museo nazionale di Villa Giulia.

Fuori dell’abitato di Cerveteri visitiamo la necropoli della Banditaccia, dal 2004 sito UNESCO, la più estesa dell’area mediterranea. Sara fa per noi una selezione, che comprende tombe di epoca variabile, dal VII al IV secolo a.C.  Le più antiche sono caratterizzate dalla forma a tumulo, come la Tomba della Capanna. Le diverse cornici, sull’apice del tumulo, le distinguono una dall’altra, un po’ come se fosse la “firma” della famiglia di appartenenza.  Nella Tomba della Cornice sono evidenti gli influssi del mondo orientale ed egizio in particolare, nei tipici sedili a trono posti nel vestibolo, ai lati della porta.  Fino all’ultima, sotto una roverella di  venerabile età (quattrocento anni), la Tomba dei Rilievi, ricavata in un ipogeo e quindi  più recente, eccezionale per  i rilievi decorativi di stucco policromo, che dobbiamo però sforzarci di distinguere a fatica attraverso un vetro protettivo che poco lascia intravedere. Era la tomba della famiglia Matuna, nome tramandato fino a noi dall’iscrizione riportata sul cippo interno alla tomba.

Proseguiamo verso Bari. Il nostro viaggio si conclude con una piacevole sosta fatta di delizie per il palato: avendo volutamente saltato la pausa pranzo ci fermiamo a cenare piuttosto presto da Minicuccio a Vallesaccarda, che già abbiamo potuto apprezzare tante altre volte nei nostri vagabondaggi.

Arriveremo a Bari piuttosto tardi, stanchi ma felici!.