Raffaele La Capria, “Ferito a morte“, Mondadori, 2021

Proposto da Luciana Cusmano

______________________________________________________________________

di Amalia Mancini

Le ferite più difficili da rimarginarsi sono quelle che ti porti dentro e non basterà una vita per liberarti da quell’infelicità. E si sa ognuno è infelice a proprio modo…

E ’il caso di Raffaele La Capria in Ferito a morte, libro cult degli anni sessanta, vincitore nel ’61 del prestigioso premio Strega.

Un libro che ho molto apprezzato dal punto di vista estetico, con una scrittura impeccabile, ma che non è riuscito a piacermi pienamente, e mi ha costretto a interrogarmi a lungo su questo: quali sono i motivi che mi spingono a non essere convinta che sia un bel libro. Perché? Partiamo dai toni del libro, dalla melanconia per un tempo perduto, che non è più, che attraversa tutto il romanzo. Un momento, possiamo parlare di un romanzo? Oppure potremmo definirlo diario, annotazioni d’autore su un mondo ormai scomparso, su una Napoli ormai esistente solo nella nebbia dei ricordi, di come eravamo, anzi erano, quei giovani borghesi napoletani che trascorrevano le loro ore migliori tra Posillipo, Capri, Sorrento e Positano, tra una immersione subacquea, una passeggiata in motoscafo e una partita al circolo, dove ognuno di loro interpretava un ruolo, una parte: il giocatore, il nuotatore, l’adescatore di fanciulle e via dicendo, in una Napoli tra gli anni ‘50 e ‘60, in cui imperversava la ricostruzione/devastazione di una città semidistrutta dalla guerra, dove la speculazione edilizia faceva da padrone.

La denuncia dell’autore è forte e diretta contro chi ha deturpato il territorio in maniera irreversibile. La Napoli a cui La Capria si riferisce è la città dei borghesi benestanti, che vivono a Posillipo e che probabilmente poco conoscono dei quartieri popolari, dove vive la plebe e la piccola borghesia, non troveremo i bassi dove Filumena Marturano per fame è costretta a prostituirsi, né le varie donne Amalia che per tirare a campare devono inventarsi mille mestieri, oppure la disperazione di chi è obbligato ad arrangiarsi, come ci narra Eduardo. Le donne, secondo la visione del tempo, sono prede, come la spigola che silenziosa nuota sott’acqua, pronte ad essere carpite. Non è neanche la Napoli di Nanni Loy di Scugnizzi o Mi manda Picone e neanche sicuramente quella di Sorrentino. E’ un mondo lontano, sconosciuto a me, quello di La Capria, amato e odiato dallo stesso autore, morto, finito come la sua giovinezza, il suo sogno, ma pure vivo grazie alla sua scrittura, criticato fortemente dalla Ortese, che ne intravedeva la decadenza e uno strano compiacimento in questa decadenza, senza speranza e senza forza di combattere.

Sembra di ritrovarsi di fronte a una battaglia perduta o mai combattuta, una sconfitta che lacera le carni, le fa sanguinare, probabilmente sanguineranno a lungo, una ferita che uccide la parte più combattiva dell’autore, che lo costringe a partire per salvarsi, ma da cui probabilmente non guarirà mai. E’ proprio questa mancanza di speranza, questo lasciare che tutto vada senza una lotta, fluisca senza voglia di cambiamenti quello che mi inquieta di questo libro, proprio come diceva Pino Daniele… Napoli è ‘na carta sporca e nessuno se ne importa… Forse se …

______________________________________________________________

Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura.

Con diverse riflessioni e tante note interessanti si è detto che il libro di La Capria è uno dei libri italiani più importanti del novecento, adottando temi e tecniche narrative che lo avvicinano a J. Joyce, M. Proust, V. Woolf e W. Benjamin. La tessitura narrativa è complessa, non c’è trama, ma le pagine scorrono con monologhi e dialoghi serrati, che conducono il lettore in un fiume di visioni, riflessioni e argomenti che la tecnica del monologo interiore svela e illumina. Sono stati evidenziati alcuni dei tanti temi che nel libro si rivelano nella luce unica e abbagliante di Napoli, il luogo della giovinezza, della bella giornata, dell’occasione perduta, del mare, ma la città che “…ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme”, è il luogo mitico da cui è quasi impossibile separarsi anche se si cerca di fuggire, sempre però nella consapevolezza dell’inesorabilità del tempo, tanto che è stato detto che il tema ricorrente di questo libro è la morte.

Palazzo Donn’Anna, mappa del romanzo, rappresentazione della bellezza e della complessità di Napoli, significante Natura e Storia, è il luogo della nostalgia e anche dell’impotenza. La Capria denuncia il sacco della città che si stava realizzando proprio negli anni in cui scriveva e che ci ha fatto pensare a La speculazione edilizia di I. Calvino, entrambi scrivevano proprio negli anni cinquanta. Si è ricordato che La Capria ha sceneggiato con il suo amico Francesco Rosi il bellissimo film “Le mani sulla città”.

L’inerzia e il grande ozio sociale della classe digerente del mezzogiorno, sono denunciati in pagine magistrali quando viene raccontato il tempo che si consuma al Circolo, epicentro delle giornate della borghesia, dove la Storia del Mondo non è mai passata e dove valori e giudizio sono sospesi. Citando i bellissimi incipit di alcuni capitoli molto si è detto sulla bellissima e ricca scrittura di questo libro, dove una lingua viva e vivace non ha affatto perso efficacia nel tempo, essendo il risultato di un profondo lavoro di costruzione.

La citazione dei versi di V.H. Auden, sia nell’esergo che nel testo testimoniano la formazione culturale del giovane La Capria, in particolare aperta alla letteratura americana e inglese. Sono stati ricordati durante l’incontro anche altri autori Anna Maria Ortese, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Paolo Volponi, Alberto Moravia, oltre all’interessante episodio dedicato a Raffaele La Capria del programma Rai, “Sciarada. Il circolo delle parole, stagione 21/22 ep.19”, reperibile su Raiplay.