18 maggio 2021

Philip Roth, “Nemesi”, Einaudi 2011. Proposto da Vanda Morano.

di Vanda Morano

Nel 1944  una epidemia di poliomielite sconvolge la quieta ordinarietà della cittadina di Newark dove vivono in confini separati vari gruppi etnici. Dapprima si diffondono sconcerto, poi paura e chiusura in una crescente tensione. La narrazione si concentra su Cantor, giovane ragazzo limitato da gravi problemi di vista che comunque ha trovato una collocazione nella società come allenatore di successo e fidanzato di una ragazza che appartiene all’upper class. La malattia e la morte scompaginano tutti i progetti e danno una nuova misura alle cose.

E’ la Nemesi, è la giustizia compensativa che interviene quando si è andati oltre. Torna in Roth il tema del fallimento del sogno americano. Cantor combatte una guerra ingiusta e terribile perché assale gli innocenti. Inconsapevole portatore di contagio, si isola nel suo senso di colpa e dubita anche di Dio. Alla fine per lui la storia rimane solo un rumore di fondo in cui vivere una pace scolorita e il ricordo di un amore che non si è compiuto. Fanno da controcanto nel romanzo i suoni: le lugubri sirene delle ambulanze e la melodia nostalgica di “I’ll be seeing you”.

Un Roth lontano dalle irriverenze e dalla teatralità barocca. Un Roth che predilige toni più pacatamente e nostalgicamente composti.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

“Un libro deve spingersi oltre l’intenzione del proprio autore. L’intenzione dell’autore è una povera cosa umana, fallibile, ma nel libro deve esserci di più.” Così scrive J.L. Borges, e forse mai come in questo incontro, le impressioni e riflessioni sono state così ricche per diversità, per approfondimenti e forse sono andate anche ben oltre le intenzioni dello scrittore.

Si è detto di aver trovato in questo libro il crollo di tutte le illusioni in un clima di grande tensione  e si è parlato in particolare di Bucky, un personaggio che la scrittura di Roth trasforma nel prototipo di uomo che non si mette in discussione, cristallizzato nella sua incapacità ad essere felice. Accanto alla maggioranza delle voci che hanno visto Backy come un uomo fragile e oppresso da un forte dilemma morale e chiuso in se stesso, ci sono state anche altre letture che hanno visto nella vita infelice di Backy, una sua scelta, un atto di forza e di superbia nei confronti di quel Dio che in quell’estate del 1944 assisteva impietoso, a quello che stava accadendo a Newark, in Europa e nel Pacifico.

Come per altri libri di Philip Roth, le sue pagine sono state molto amate da noi tutte, per la grande narrazione, per la ricchezza e profondità dei temi che affronta e soprattutto per l’analisi puntuale dei personaggi accompagnati sempre però da una lucida pietas. Un Philip Roth pacificato in questa ultima stagione della sua vita, che continua a fari i conti con il tema della morte ormai con la coscienza che la vita va accettata per quella che è, con o senza Dio.