19 novembre 2024

Sàndor Màrai, “La recita di Bolzano”, traduzione di Marinella D’Alessandro, Adelphi, 2000, pp. 264.

proposto da Vanda Morano.

di Vanda Morano
La recita di Bolzano” è uno dei pochi romanzi pubblicati da Sàndor Màrai quando era ancora in vita. Màrai è stato uno scrittore ungherese naturalizzato statunitense.
Fu avversario del comunismo come lo era stato del fascismo. Importante figura di riferimento nella vita letteraria e teatrale del paese fino agli anni ’40 non poteva immaginarsi senza la propria libertà. Dal ’48 visse in Italia e poi in America; in un esilio che si rivelò irreversibile e ricco di esperienze, continuò a scrivere nella lingua madre rimanendo legato alla cultura di origine. Il binomio vita-scrittura e l’eventuale
funzione sovversiva della parola scritta sono analizzati nel romanzo. Per Marai la scrittura non è solo strumento “è … potere”. La scrittura è la forza più grande che esista.

Il Casanova di Marai, lontano dal libertino archetipo del seduttore, è intrappolato nelle sue stesse illusioni e nel peso del passato; è alla ricerca di un senso nella vita. Dice lo scrittore “Il mio eroe rassomiglia maledettamente a quel viandante intrepido, apolide e tutto sommato…. infelice”. Apolide e infelice come il suo Autore. La fuga dai Piombi è l’incipit, è l’ouverture, quasi in senso musicale, di una indagine sulla complessità della figura umana, sull’inganno e sulla sottile linea che separa il teatro dalla vita reale. Bolzano con la sua misteriosa e sospesa atmosfera è lo scenario perfetto per una riflessione sull’amore sull’identità, sul potere e sulla decadenza.
S, Màrai ci racconta un Casanova ormai privo di avvenenza, che si sorprende per la scarsa reattività a suoi tentativi di seduzione di Teresa, giovane cameriera della locanda dove alberga. Ha dedicato l’intera esistenza al “richiamo imperioso della vita” ora si misura con la decadenza e la fragilità. Ha incantato tante donne, ha vissuto tante avventure alla ricerca del mistero e spinto dal desiderio. Il desiderio che lo rende vulnerabile è al centro del suo essere e gli impedisce la felicità. A lui che ama essere protagonista nella vita, il vecchio potente consorte dell’unica donna che abbia mai amato, Francesca, chiede di rappresentare gli inganni dell’amore per ferirla e guarirla dell’amore che prova per lui. La messa in scena si verifica non nei termini indicati dal conte. I due recitano a ruoli invertiti (Casanova mascherato da donna e Francesca mascherata da ragazzo). La donna depone ai piedi dell’amato ritroso le più appassionate profferte d’amore che vengono però rifiutate.
Casanova scriverà al conte che “L’Unica rimane tale soltanto finché è ricoperta dai veli misteriosi e dai drappi segreti del desiderio e dalla nostalgia”. Proseguirà quindi il suo destino di baro apolide e libertino, e la sua ricerca esistenziale.
La costruzione, la trama e l’ambientazione del romanzo rivelano i valori e le norme e la cultura della società settecentesca. E’ una rilettura dell’epoca in cui troviamo i tratti caratteristici della scrittura di Màrai: la maestria nell’analizzare i rapporti affettivi; l’espediente narrativo della voce narrante a cui seguono lunghissimi monologhi. Scrittura elegantemente articolata che evoca sensazioni di tristezza, di nostalgia, di tormento attutiti talvolta dall’ironia.

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Breve nota a cura di Tonia Lamanna, dopo l’incontro del gruppo di lettura.

L’incontro si apre con la presentazione dello scrittore ungherese Sándor Márai, Autore tra gli anni ’30 e ’50 di pieces di teatro, romanzi, poesie, antifascista ma anche critico verso il regime comunista, per questo costretto all’esilio nel 1948 e successivamente ad una vita da apolide analoga a quella del protagonista del romanzo “La recita di Bolzano“, pubblicato nel 1940.

Dopo la fuga dai Piombi di Venezia – città definita nobile ma anche marcia e pericolosa – l’approdo avventuroso di Casanova nella seria e virtuosa Bolzano, dove il destino pare attenderlo, è la metafora dell’andare senza meta, anzi della sofferenza per l’assenza di una meta e della ricerca di senso nella sregolatezza del personaggio, il che permette all’Autore un’ indagine psicologica sulla vita, sulla morte, sulla felicità e il suo contrario, su decadenza fisica-noia-solitudine, sul potere e la fragilità umana, nobiltà d’animo e ciarlataneria, sul desiderio e la seduzione, il destino, la libertà, il vincolo d’amore.

Le riflessioni e i commenti emersi dal gruppo hanno rilevato e confermato l’evidente struttura bipartita del testo, preannunciata nella presentazione. Nella prima parte una molteplicità di personaggi, magistralmente tratteggiati dalla penna ricca di aggettivazioni, elegante e precisa di Márai – le comari bolzanine, Teresa, il barbiere, Mensch l’usuraio, Bragadin notabile veneziano protettore di Casanova, Padre Balbi il monaco “depravato” che lo accompagna nella fuga – è mossa teatralmente in situazioni quotidiane tra il realistico, il grottesco e il tragicomico. La seconda parte è abilmente introdotta dall‘Autore, innescando il dispositivo narrativo della suspense, con la mirabile e icastica descrizione dell’atmosfera serale preparatoria della cena nella Locanda del Cervo e la lenta e faticosa ascesa del Conte di Parma alla buia camera di Giacomo Casanova. Lì si svolgono i tre lunghi e densi monologhi sull’amore e il tradimento, decisivi e travolgenti per il fatidico triangolo che lega da lungo tempo il Conte, Giacomo e Francesca: fanciulla toscana per il cui amore, non colto, Casanova si era battuto anni prima e che aveva quasi dimenticato. È il Conte a proporre per contratto la “recita” che dovrà liberare per sempre sua moglie Francesca dall’amore che prova per Casanova, patto che il libertino cinicamente accetta da abile commediante qual ritiene di essere. Ma esce sconfitto dall’incontro notturno con la donna in una memorabile tenzone a parti scambiate: lui travestito da donna, lei da uomo, alla fine vincente perché ha saputo guardare oltre i suoi molteplici mascheramenti e vendicarsi dichiarando alla fine “ti ho visto, ti ho conosciuto e ti ho ferito” e per questo rimarrà “l’Unica” per il seduttore vittima delle sua stessa ars amatoria.

Molteplici sono stati i confronti e i riferimenti alla triangolazione amorosa ne “Le braci”, “La donna giusta” dello stesso autore, al teatro della maschere di Pirandello molto in auge negli anni ’30 in Italia e in Europa.

A una lettrice del gruppo la seconda parte è risultata troppo lunga e ridondante, un’altra perplessa si è chiesta quale fosse la motivazione delle parole provocatorie e libertine di Francesca dapprima pronta a deporre tutta se stessa ai piedi dell’avventuriero, ad altre la lettura è apparsa necessariamente faticosa in quanto ogni parola del testo è da centellinare e gustare senza lasciarsi prendere dalla fretta di finire o dall’ansia di conoscere l’esito della vicenda. La maggioranza si è detta conquistata dalla qualità della scrittura di Marai e dalla struttura formale del romanzo che per qualcuna sopravanzava il capolavoro de “Le braci”. Da molte è stata apprezzata nella trama la valorizzazione positiva delle figure femminili ed in particolare di Teresa che è apparsa la più schietta, refrattaria alle manipolazioni di Casanova e autonoma nelle sue scelte finali, personaggio popolare contrastante con il personaggio di Francesca, aulico e aristocratico. A questo proposito è stato posto all’attenzione del gruppo il richiamo al ”Don Giovanni” di Mozart su libretto (alla cui stesura pare abbia dato qualche contributo il Casanova storico) di Lorenzo Da Ponte (autore dalla vita altrettanto avventurosa), dramma giocoso in musica in cui si trovano a confronto, ambedue oggetto delle attenzioni amorose di Don Giovanni e di appropriato stile musicale basso e alto da parte di Mozart, la giovane contadina Zerlina e la nobile Donna Elvira.

Così, pur nell’universalità dei temi trattati, è stato riconosciuto in quest’opera il background della cultura e della filosofia del Settecento, il secolo dei Lumi ma anche di trame e d’intrighi, senza farne certamente un romanzo storico. Ma ciò che tutte infine hanno riconosciuto e sottolineato è il ruolo e l’importanza attribuita dal protagonista alla scrittura, al “potere” esercitato dalla scrittura, la scrittura è ciò che resta del movimento fuggevole delle cose, la scrittura è potere essa stessa, e proprio “l’essere scrittore”, la vocazione letteraria, è ciò che riscatta Casanova dalla dissolutezza del vivere e l’ineluttabilità del suo destino: forse in vista di futuri capolavori egli dichiara di dedicarsi ad accumulare esperienze, ma soprattutto per conoscere se stesso, “perché essere qualcuno conta più che fare qualcosa, ed è anche più difficile…”.

Opere citate di o su Sándor Márai:

Bébi, il primo amore” (Bébi, vagy az első szerelem, 1928), traduzione di Laura Sgarioto, Collana Biblioteca n.762, Milano, Adelphi, 2024

La donna giusta” (Az igazi, 1941), Milano, Adelphi, 2004 

Le braci” (A gyertyák csonkig égnek, 1942), Milano, Adelphi, 1998

Il sangue di San Gennaro” (San Gennaro vére, 1965), traduzione di Antonio Donato Sciacovelli, Milano,Adelphi, 2010